Alla fine sappiamo dove si trova l’oro di Banca d’Italia: metà a Roma, in via Nazionale, nella cosiddetta sagrestia, e l’altra metà – ovvero 1.200 tonnellate – fra Stati Uniti, Svizzera e Inghilterra. Di più non è stato precisato dai funzionari ai senatori 5 Stelle Molinari, Vacciano e Cioffi che, esercitando i poteri ispettivi connessi alla carica, hanno ottenuto lunedì scorso di visitare fisicamente i locali dove sono conservati i lingotti.
A dire il vero non hanno controllato il numero, né verificato il tenore del metallo, ma pure dando per buono il dato, sarebbe ormai impossibile – o meglio possibile solo in Italia – evitare che un procuratore della Repubblica o Salvatore Nottola (Procuratore generale della Corte dei Conti) aprano un’indagine. Aspettiamo.
Negli ultimi decenni l’Italia ha depositato almeno mille tonnellate d’oro presso soggetti giuridici stranieri e, contemporaneamente, pagato interessi stratosferici sul debito pubblico, in buona parte verso soggetti esteri. Ma l’oro non è una commodity qualsiasi: ha valore monetario e viene, appunto, considerato riserva. Qual è il contratto sottostante al deposito? Quali sono gli accordi reali? Riferiscono (via Facebook) i nostri senatori che il solerte funzionario di banca ha precisato che una delle ragioni della scelta di tenere all’estero i lingotti è “la vicinanza ai mercati”.
Ufficialmente si tratta di un Safe keeping deposit, cioè deposito infruttifero. Ma non sono nate così le banche e le banconote? Il mercante teneva presso di sé monete d’oro, a fronte di lettere di cambio cartacee, con l’impegno a restituirle e nel frattempo ne era lui l’utilizzatore. Se è un mero servizio, qual è il suo costo. O forse si tratta di una garanzia, mai formalizzata a favore dei nostri creditori internazionali?
E purtroppo, come ha ampiamente illustrato Bottarelli su queste pagine, non si tratta di ipotesi remota, ma di obblighi concreti scaturenti da risoluzioni europee approvate negli ultimi anni. Se non riusciremo (come quasi certamente accadrà) a portare al di sotto del 60% del Pil il debito pubblico, saremo costretti a dare – basta lasciargliele tenere! – le 1.200 tonnellate d’oro.
E, ingenuamente, i nostri senatori hanno chiesto anche: ma di chi è l’oro di via Nazionale? E la risposta ottenuta – “di Banca d’Italia” – si traduce ormai in quella più concreta “di Intesa SanPaolo, Unicredit, Mps, Unipol, Allianz, Generali, ecc.” Perché con quella che è ormai legge dello Stato, le quote di proprietà – prima teoricamente pubbliche – sono state definitivamente iscritte nei bilanci di queste aziende private.
E, così, mentre Grillo va in giro sui palcoscenici a raccontare dei 7 miliardi e mezzo (che in realtà sono un po’ meno) regalati alle banche, i nostri tre piccoli eroi scoperchiano il vaso di “Pan d’oro” della sagrestia. Il guadagno delle banche è molto semplicemente una lauta, ma normale, commissione per il servizio di “portage”, prestato nello scippo ai danni degli italiani di circa 80 miliardi (il valore attuale delle 2.500 tonnellate d’oro della Banca d’Italia).
P.S.: E non si tratta, caro Bottarelli, solo di miopia dei nostri eletti: il disegno di mandare al Parlamento europeo inetti e incapaci è di grande portata, attraversa tutte le forze politiche e mette in campo le risorse più oscure. Non per nulla Casaleggio parla di macchina del fango contro il Movimento e nel frattempo si propone l’espulsione del senatore Molinari.