Ogni dettaglio ha qualcosa da dire a chi lo osserva: al centro del quadro il mercante lucchese Giovanni Arnolfini tiene per mano la sua giovane sposa Giovanna Cenami, mentre intorno a loro i nostri occhi sono liberi di vagare tra il cagnolino da compagnia, le due paia di calzature sul pavimento (entrambi indicanti il tema della fedeltà coniugale), la frutta sul davanzale e sul mobiletto sottostante (arance per la precisione, come augurio di fecondità), il lampadario a sei braccia con un’unica candela (accesa, segno di Dio e della fede) e il rosario che pende da un chiodo alla parete, la medesima dove l’autore lascia l’esplicita traccia di sé: “Johannes de eyck fuit hic 1434”. Firma sotto la quale troviamo anche il piccolo specchio convesso con storie di Cristo sulla cornice, superficie che rimanda alla maniera di un grandangolo ante litteram la scena circostante dal punto di vista opposto rispetto a chi guarda (e a chi l’ha dipinta).
Oltre cinquecento anni più tardi questo specchio viene pressoché letteralmente ripreso e inserito in una sequenza del film Otello (1952) diretto e interpretato da Orson Welles, rendendolo protagonista di un’eloquente inquadratura nella quale possiamo brevemente vedere a tu per tu con il suo doppio il Moro di Venezia, nella cui mente il “dia-bolico” Iago sta iniziando ad inoculare il letale virus della gelosia nei confronti di sua moglie Desdemona. Da un’opera di transizione della modernità cinematografica come questa ad un’altra ormai considerata altrettanto “classica”, questa superficie riflettente fa anche capolino in uno dei non pochi meandri di quel labirintico e affascinante melting pot della cultura di fine Novecento che è Blade Runner (1982, Ridley Scott), laddove il cacciatore di replicanti Rick Deckard riesce a mettersi sulle tracce della fuggitiva Zhora.
Dal XV al XX secolo, dalla pittura al cinema, da Van Eyck a Welles: sessant’anni fa, sabato 10 maggio 1952 – a quasi quattro anni dall’inizio delle riprese a margine della Mostra di Venezia nel settembre 1948 – l’Otello wellesiano viene presentato a Cannes durante la serata di chiusura della 5ª edizione del “Festival International du Film” (la prima con questa collocazione mensile sul calendario), vincendo il Grand Prix ex aequo con Due soldi di speranza di Renato Castellani (solo a partire dal 1955 verrà istituita la Palma d’oro come riconoscimento alla migliore pellicola in concorso). Ma prima ancora che il premio della giuria francese, il vero, grande miracolo è l’esserci arrivato così come ideato, girato e montato secondo la volontà del suo autore, viste la perenne ricerca di finanziamenti e le conseguenti disavventure produttive che ne avevano caratterizzato la lavorazione: «[I]l film è stato girato a pezzi. Per tre volte ho dovuto interrompere le riprese, cercare i soldi e ricominciare; cioè, mi si vede guardare fuoricampo a sinistra, e quando si stacca su quello che sto guardando siamo in un altro continente, un anno dopo. E dunque nel film ci sono molti più stacchi di quelli che avrei voluto; non era scritto così, ma ho dovuto farli perché non avevo mai il cast completo a disposizione».
Il critico e regista François Truffaut, nel saggio introduttivo per l’edizione USA del libro su Welles curato nel 1972 da André Bazin (fondatore dei “Cahiers du cinéma” e padre spirituale dei registi della “Nouvelle Vague”), ci invita a guardare oltre il solo dato contingente: «Bisognava essere il grande tecnico che era già ai tempi dei suoi esordi per cavarsi d’impaccio, ed è fuor di dubbio che è facendo il montaggio di questo film, che totalizza quasi duemila inquadrature, che Orson Welles si è appassionato a questa fase del suo lavoro. Orson Welles è sempre stato un regista musicale, ma prima di Otello faceva musica all’interno delle inquadrature, a partire da Otello farà musica al tavolo di montaggio, vale a dire tra le inquadrature». E all’interno del testo vero e proprio è lo stesso Bazin a dare contorno e contenuto alla propria ammirazione: «La segmentazione estrema del découpage è sicuramente da rapportarsi alla segmentazione involontaria della realizzazione. […] Ma sarebbe sciocco, oltre che superficiale, ridurre la tecnica del découpage di Otello a questi impedimenti esterni. I veri creatori hanno sempre saputo sfruttare positivamente le avversità materiali, e aguzzare l’ingegno davanti alla resistenza opposta dalle cose. Da una contingenza pratica non voluta, Welles ha saputo trarre uno stile di regia».
Ma quale può essere l’inesauribile fonte per un autore pure di genio cui attingere per cavare da quattro anni di lavoro intermittente una pellicola di circa novanta minuti fatta di almeno millecinquecento inquadrature diverse? Ecco come Alfredo Todisco – che iniziò la sua carriera giornalistica nel 1948 proprio da inviato speciale alla Mostra di Venezia per conto del quotidiano “Ultimissime” di Trieste – ricorda l’incontro e le poche giornate trascorse con Welles: «Si capiva che era un uomo di grande sensibilità per ogni forma di bellezza. Se Venezia fa su chiunque un grande effetto, su di lui faceva un grande effetto più una quantità X. Ricordo che certe volte guardavamo dalla piazza la basilica di San Marco […] e lui diceva “mi sembra una mongolfiera che sta per alzarsi nel cielo”. […] Era un uomo che viveva in parte su questo pianeta dove noi mettiamo i piedi, e in parte nella sua immaginazione, nella sua fantasia. Sempre fantasie di tipo estetico-cinematografico. […] Aveva una mente fantasiosa, sensibile alla parola poetica. […] Il nostro incontro durò una settimana, e poi ce ne fu un altro di dieci giorni, perché a un certo punto cominciò a girare Otello, e allora mi invitò ad andare a vedere le riprese… […] Non lo rividi più. La vita è così, generalmente ti rimangono addosso i rompicoglioni. Le persone con cui magari avresti voglia di stare svaporano nello sfondo…». “Svaporano nello sfondo”… Fortunatamente resta sempre la possibilità di imbattersi in un adamantino “Johannes de eyck fuit hic” oppure in pellicole della felicità espressiva di Otello, anche quando non si sia del tutto sicuri che “This is Orson Welles” (il titolo originale del suo lungo libro-intervista del 1992): va da sé, per cosa c’è e per come lo si vede sullo schermo.