«Wer, wenn ich schriee, hörte mich denn aus der Engel / Ordnungen? und gesetzt selbst, es nähme / einer mich plötzlich ans Herz: ich verginge von seinem / stärkeren Dasein»; «Chi, s’io gridassi, mi udrebbe mai dalle sfere / degli angeli? E se pure d’un tratto / uno mi stringesse al suo cuore: perirei della sua / più forte esistenza»: come potersi strappare dalla memoria, una volta che vi si è imbattuti, l’incipit della Prima Elegia Duinese di Rainer Maria Rilke – solitamente accostata dalla critica, prendendo a prestito una terminologia più propria del campo musicale, a una sorta di ouverture nell’ambito delle dieci che ne compongono l’intero ciclo?
Il sensibilissimo autore praghese vi propone, con una forza e un linguaggio poetici difficilmente eguagliabili, la personale e raffinata interrogazione agli angeli, nella speranza di poter individuare l’autentica natura dell’uomo cogliendo l’immagine del suo rovescio, l’angelo per l’appunto. Non può quindi apparire solo un caso il fatto che Rilke e queste sue figure di elezione siano stati il punto di partenza anche per uno dei capolavori di un altro artista di lingua tedesca che ha esercitato la propria professione non sulla pagina scritta ma nell’ambito di un set cinematografico: stiamo parlando di Wim Wenders (1945) e del suo Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987) che esattamente un quarto di secolo fa, presentato in concorso alla 40ª edizione del Festival di Cannes, ricevette il premio per la migliore regia, assegnato al regista di Düsseldorf dalla giuria presieduta da Yves Montand (Francia) e formata – fra gli altri – anche da Theo Angelopoulos (Grecia), Norman Mailer (Usa), Nicola Piovani (Italia) e Jerzy Skolimowski (Polonia).
A partire dai primi anni Settanta fino alla metà degli anni Ottanta, Wenders aveva vissuto circa otto anni negli Stati Uniti, prima di manifestare il desiderio di rientrare in Europa: «Berlino era ancora una città divisa. Ci vivevano due popoli diversi, sebbene evidentemente parlassero la stessa lingua. Il cielo era l’unica cosa che a quei tempi unisse la città. […] Non avevo alcuna storia per il film, nemmeno l’ombra. Non avevo alcun personaggio. A parte il desiderio di scavare in profondità in quel luogo, non c’era altro. […] Ero sempre più ossessionato da questa “missione”, ed ero assolutamente convinto che Berlino volesse raccontarsi in un film e avesse bisogno di me come strumento. […] Mi sono dato molto da fare, ho cercato di assorbire di tutto, e così ho notato parecchie cose cui in precedenza non avevo mai badato. Colonne, archi, sculture, tutti gli elementi decorativi possibili, uno dei quali è così frequente da rimanerti in testa: in questa città ci sono un’infinità di angeli, non solo nei cimiteri, dove sono un’autentica folla, ma anche sulle pubbliche piazze. […] Un po’ alla volta la città ha instillato profondamente in me il suo personaggio preferito: l’angelo. All’inizio non volevo ammetterlo. Mi era del tutto indifferente. Il mio interesse per gli angeli era limitato. Avevano messo le ali alle mie fantasie infantili, il che non stupisce in un giovane cresciuto in un ambiente cattolico, ma questo era successo un bel po’ di tempo prima. In ogni caso, nel mio taccuino è rimasto caparbiamente questo singolare appunto: “Raccontare la città dal punto di vista degli angeli custodi!” […] La città stessa mi ha imposto il suo protagonista. Ero sicuro che si sarebbe preoccupata lei anche della storia».
E così è stato, con la disponibilità di Wenders e la collaborazione di Peter Handke: gli angeli Damiel (Bruno Ganz) e Cassiel (Otto Sander) si aggirano, chiusi nei propri cappotti e nelle proprie sciarpe, nella Berlino degli anni Ottanta, città che lo spettatore inizia a conoscere attraverso il loro sguardo, con immagini aeree in bianco e nero e punti di vista “altri” rispetto al solito. I due vagano tendendo l’orecchio ai pensieri delle persone che incontrano e cercando, nei limiti di quanto è loro concesso in qualità di esseri di puro spirito, di modificarne il flusso nel caso in cui questo si rivelasse troppo severo o disperato nei confronti di se stesse e delle vite che conducono.
Dopo momenti di autentico spaesamento e di memorabile “incantamento” (fra tutte la famosa sequenza della biblioteca), vediamo Damiel imbattersi nel tendone di un circo e nella bella trapezista Marion (Solveig Dommartin), per amore della quale inizia a pensare di diventare un uomo: dal momento della sua fatidica scelta, entrando definitivamente nel mondo umano, anche la pellicola acquista quei colori che fino a quel momento avevamo visto solo in brevissimi fotogrammi, a rappresentare il punto di vista degli uomini nelle vicende narrate. In questo percorso iniziatico, Damiel è aiutato da un noto attore americano presente in città per girare un film sulla Germania nazista (Peter Falk, nei panni di se stesso), il quale gli rivela che fino a trent’anni prima anche lui era un angelo: ora è solo un “ex”, come ce ne sono tanti nel mondo.
Angeli ed ex-angeli, partendo da Rilke per arrivare ai veri e propri numi tutelari del regista. Come infatti egli afferma nel commento all’edizione in DVD dell’opera, una volta giunti alla dedica che la chiude, «ho dedicato il film ai miei tre angeli: a Truffaut, Tarkovskij e Ozu. Non è stato qualcosa su cui avevo riflettuto a lungo. Il film era finito, stavo realizzando i titoli di coda. In qualche modo mi veniva in mente che se dovevo il film a qualcuno non era a un regista in particolare ma in qualche modo a tutti e tre, al loro spiritualismo e ai loro film. Ho continuato a pensare a ciascuno dei tre, sia a Tarkovskij che a Truffaut che a Ozu, come a delle figure angeliche, quasi come delle guide spirituali. Nessuno si è avventurato in quel territorio metafisico come ha fatto Tarkovskij. Nessuno ha trattato i suoi personaggi con più amore di Ozu. Non esiste alcun linguaggio più delicato di quello di Truffaut. Quando ho finito il film, ho pensato che fosse stato realizzato perché conoscevo i loro lavori».
Dunque un’opera che è in tutto e per tutto uno spontaneo atto di amore: a una città e alla sua umanità ferite, al loro sorprendente “protagonista” e a quegli autentici maestri che hanno fatto di Wim Wenders un autore.