L’Italia delle banche sembra (è) paralizzata. La politica creditizia appare cementata in fretta e furia attorno alla richiesta-Paese di rinvio della normativa “bail-in”: cercando magari la scia dell’ennesima bordata Usa contro la Germania (Deutsche Bank dopo Volkswagen). È una mossa fuori tempo massimo, poco credibile, con poche prospettive. Come può pensare Roma di bloccare la nuova “legge bancaria europea” se non è riuscita neppure a ottenere una bad bank, concessa invece a paesi più deboli e meno pesanti nell’Ue?
Le regole Brrd sono state votate in Europa e poi recepite in Italia senza dialettica alcuna, fra il 2014 e il 2015, dal governo guidato da Matteo Renzi. L’Unione bancaria è stata proposta e tenacemente sviluppata dal presidente italiano della Bce, Mario Draghi: ex governatore della Banca d’Italia. Il fronte d’opinione che oggi sostiene la “resistenza bancaria” italiana è lo stesso che dal 2011 almeno fino all’avvento di Renzi ha invece propugnato la “giusta austerity” euro-tedesca di cui è stato esecutore in Italia Mario Monti. Quel largo fronte d’opinione – politico, imprenditoriale, accademico, mediatico – ha aperto le porte a ogni pressione e incursione dei mercati e delle authority europee. E questi – via spread e stress test – hanno “fatto presto” ad abbattere un sistema bancario che aveva retto invece l’urto del 2008: perché molto meno infettato dalla finanza derivata di quello tedesco, olandese, francese, inglese.
Nel frattempo quattro piccole banche sono finite risolte per dare l’esempio e il sistema bancario italiano le ha dovute salvare al prezzo più alto, sia in termini finanziari che d’immagine. È anche per questo che l’ennesimo crollo delle Borse colpisce in misura più accentuata le banche italiane: intralciando i progetti di fusione fra Popolari, impedendo la rivendita veloce delle quattro banche salvate, soprattutto lasciando pericolosamente marcire il caso Mps. Non è mancato neppure un maldestro tentativo di coinvolgere nel salvataggio di Siena le Poste appena privatizzate. Risultato: sia il 60% tuttora di proprietà statale (cioè di tutti gli italiani), sia il 40% collocato a novembre nei portafogli dei risparmiatori italiani e dei grandi fondi internazionali, ha visto cadere in pochi giorni il suo valore al listino da 7 euro (sopra il prezzo Ipo) a 5 euro. Non da ultimo, la riforma del Credito cooperativo – a lungo annunciata come “balzo in avanti” – è stata infine varata in modo confuso sia sul piano tecnico che politico: allungando, fra l’altro, le ombre del conflitto d’interesse sul premier stesso.
Poca attenzione – quasi nulla – sta in vece riscuotendo quanto sta avvenendo nel quadrante bancario del Nord-est. Il nuovo presidente della Fondazione CariVerona, Alessandro Mazzucco – che venerdì ha raccolto l’eredità di Paolo Biasi – ha subito confermato che il riassetto delle Popolari sarà fra le priorità dell’ente. Affermazione a rischio di “scorrettezza politica” nella narrazione tradizionale, secondo cui Fondazioni e Popolari – scrivono da anni giovani stagisti del Fondo monetario, subito presi per oro colato da Ue, Bce, commentatori anglo-italiani e magari anche da Palazzo Chigi – sono il male assoluto nella finanza di mercato, autentico Made in Italy alla rovescia: prima viene distrutto e meglio è per tutti, “anche per l’Italia”.
In ogni caso: nessuno si sogni di utilizzare i patrimoni delle Fondazioni (di fatto gli unici disponibili fra pubblico e privato) per stabilizzare le banche italiane “in crisi”. La “soluzione finale” per le banche italiane “in crisi” può essere solo il “bail in”, oppure le Opa sulle Popolari trasformate in Spa; oppure ricapitalizzazioni a prezzi stracciati: ad esempio per la Popolare di Vicenza e la Veneto Banca che – con i mercati nella tregenda – dovrebbero raccogliere in tutto 2,5 miliardi. Altrimenti la Bce le “risolverà”.
Le narrazioni, anzi: le iniziative che cominciano a venire dal Nord-est sono molto diverse. Il sindaco di Verona, Flavio Tosi (leghista dissidente orientato verso il Partito della nazione renziano) e il governatore del Veneto Luca Zaia (forse il leghista italiano più potente dopo il leader nazionale Matteo Salvini) vogliono tenere a galla le Popolari del Veneto, vogliono tenerle in Veneto. È stato Tosi a fermare la mano di Renzi, che voleva la Bpm al capezzale di Mps: e Renzi, a quanto pare, gli sta dando retta. Un accordo di massima per una fusione fra il veronese Banco Popolare e la Milano è atteso a giorni e può segnalare che il sistema italiano “è vivo e lotta” più di mille pagine di giornale contro il bail-in. È chiaro che Bpm-Banco (che avrà bisogno di un nocciolo duro) nascerà anche come piattaforma per mettere in sicurezza altre Popolari: quale fra le altre due venete? L’Etruria o le Marche “risolte? Si vedrà.
Nel frattempo è ovvio che i giornali ne parlino poco o nulla: sindaci e governatori che fanno politica creditizia, Fondazioni che investono in Popolari, “banche di territorio”. Realtà eretica per l’immaginario mediatico; inaccettabile per i delicati stomaci liberisti dei professorini che alimentano le narrazioni politicamente corrette sulla fine del “bancocentrismo” italiano; sulla correttezza “a prescindere” di tutto quanto viene da Bruxelles, da Francoforte, dalla City, da Wall Street.
Eppure la Fondazione CariVerona di Biasi è stata quella che vent’anni fa ha costruito la corazzata UniCredit dandone il timone ad Alessandro Profumo. Salvo poi andarsene polemicamente dal consiglio un anno fa, non condividendo nulla di quanto sta accadendo ultimamente in UniCredit (-50% al listino negli ultimi sei mesi): Warren Buffet avrebbe fatto diversamente? E nel board di UniCredit siede – come consigliere indipendente – Lucrezia Reichlin, economista della London School ed editorialista del Corriere della Sera. Silenziosa come il quotidiano di via Solferino (indebitato anche con UniCredit) su una Borsa che boccia a ripetizione una banca che ha appena presentato un piano strategico.
Invece sui quotidiani triveneti cominciano a correre “nuove narrazioni”. A Vicenza, ad esempio, sul giornale controllato dagli industriali è spuntata una questione semplice: ma perché la Popolare deve andare in Borsa? Va bene risanarla con svalutazioni dolorose dei titoli e una massiccia ricapitalizzazione: abbiamo cominciato a farlo con il bilancio 2015. Va bene cancellare l’era-Zonin, lo sta facendo un nuovo amministratore delegato. Va bene trasformarci in Spa: lo chiede la riforma varata dal Governo. Va bene fare compiti a casa ed esami di riparazione chiesti dalla Bce. Ma perché massacrarci subito in Borsa? Farci raccattare a due lire? Perché fare la fine di UniCredit lasciata in mano ai fondi sovrani de Golfo e a Luca di Montezemolo?
A proposito, dietro questi ragionamenti – molto-molto “scorretti”- c’è (anche) l’attuale presidente della Vicenza: Stefano Dolcetta, vicepresidente uscente di Confindustria per le relazioni sindacali; esponente di punta di quell’irrequieta Federmeccanica che sta schierando più di un candidato per la riconquista di viale dell’Astronomia. Un fronte industriale molto nord-orientale (anche Brescia e Bologna sono Nord-Est) forse un po’ stanco di narrazioni, renziane e non. A cominciare da quelle sulle banche.