Il mercato del lavoro, in Italia, riserva sempre delle sorprese. Sono passati pochi giorni da quando la Commissione europea ha riconosciuto che, nel 2015, l’economia manderà primi segnali di crescita (che si irrobustirà nel 2016), mentre continuerà a restare elevato (al 12,8%) il tasso di disoccupazione, nonostante gli affidamenti che vengono rivolti (da ultimo da parte del Governatore Ignazio Visco al Forex) alla politica del lavoro del governo Renzi e in particolare agli effetti del Jobs Act. Viene da chiedersi, allora, quali siano i motivi per cui non si riesce a invertire il ciclo negativo dell’occupazione.
Alcune spiegazioni, purtroppo, sono evidenti. Pesa sul trend occupazionale l’assetto produttivo e sociale delle diverse aree del Paese, a partire dal divario tra Nord e Sud. Occorre poi considerare che stiamo andando verso una stabilizzazione degli standard economici, ma comunque al ribasso rispetto agli andamenti di prima della crisi (i grafici sono molto significati nel rappresentare l’abisso in cui è precipitato il Pil nel 2008-2009 senza più risalire ai livelli precedenti). Proprio perché si chiude una fase, le imprese saranno costrette a determinare organici più definiti sulla base degli attuali standard produttivi, “liberandosi” degli esuberi finora custoditi nella rete degli ammortizzatori sociali.
Non è un caso che il ministro del Lavoro si ponga, ormai con cadenza quotidiana, il problema di un alleggerimento dei requisiti anagrafici del pensionamento, allo scopo di chiedere al sistema pensionistico di farsi carico – tramite forme spurie di prepensionamento – di taluni problemi del mercato del lavoro. Talvolta, però, questi scenari preoccupanti e di difficile soluzione sono costretti a misurarsi con episodi di “vita vissuta’” che lasciano sconcertati.
L’ultimo, pervenuto alla nostra attenzione, è il seguente. CityPoste Payment è un’azienda che intende assumere 104 persone in vista dell’apertura di 50 punti vendita in sei regioni dell’Italia settentrionale. Per ragioni organizzative – si legge su Il Corriere della Sera dell’8 febbraio – i colloqui di selezione si sono svolti nel weekend. Su 563 candidati se ne sono presentati solo 25. In particolare, in Emilia Romagna, ben 96 avevano risposto all’annuncio. Interpellati, solo 16 hanno confermato la loro partecipazione all’incontro; ma alla fine solo 8 si sono recati al colloquio.
Secondo gli organizzatori (che si sono formati questa opinione sulla base delle risposte ricevute), il motivo prevalente delle assenze è dipeso dal fatto che i colloqui si svolgessero nel weekend. Come si incastrano eventi siffatti nella rappresentazione della realtà che le statistiche (con serietà), i talk show (col piglio demagogico del populismo) continuano a fornire? Ma proprio perché noi critichiamo questo approccio approssimativo alla realtà, ci rifiutiamo di fare, di un caso specifico, una regola generale.
Resta il fatto che l’azienda CityPoste Payment aveva messo a disposizione 104 posti di lavoro, ma, alla fine, i lavoratori – che si sono dimostrati interessati e disposti a sostenere un colloquio – sono risultati essere meno di un quarto. Non siamo andati oltre a quanto abbiamo letto sui giornali, che hanno riportato le dichiarazioni stufette del manager della società. Può darsi che, mediante un approfondimento, emergessero – a parziale giustificazione dell’assentarsi persino nelle fasi preliminari di un possibile lavoro – elementi un po’ più solidi del rifiuto di dover rinunciare a parte di un weekend. Ci aspettiamo pure che qualcuno evochi il clima di sfiducia che ha portato agli onori delle cronache il caso dei Neet (coloro che non studiano più, non hanno ancora un lavoro e non lo cercano); oppure possiamo anche mettere in conto che i posti di lavoro offerti fossero regolati da rapporti atipici riconducibili alla “mistica del precariato”. Rimangono, però, prive di risposta altre considerazioni, di carattere strutturale, che possono spiegare, almeno in parte, l’attuale situazione della disoccupazione giovanile.
In un recente saggio (Lavoro e formazione dei giovani, La scuola), Giuseppe Bertagna ha messo in evidenza le contraddizioni del caso italiano. Abbiamo la più alta percentuale Ue di inoccupazione giovanile tra i 15 e i 29 anni. Nello stesso tempo, vi è la più alta disponibilità di posti di lavoro (soprattutto manuale) che restano vacanti per mancanza di competenze di chi dovrebbe svolgerli o perché vengono rifiutati. Può reggere una situazione siffatta, per di più in tempo di crisi? Evidentemente no. Ma non basta – anche se è importante farlo – osservare che, da noi, esiste tanto lavoro regolare e stabile che viene rifiutato, perché si tratta dell’aborrito lavoro manuale. Occorre impegnarsi in una battaglia culturale, anche all’interno delle famiglie che favoriscono con il loro comportamento la naturale propensione dei giovani a non impegnarsi nel lavoro fino a quando non si apre, per loro, la prospettiva professionale a cui ambiscono. Occorre convincersi che tutti i lavori sono decenti e che, aver acquisito un know-howscolastico e culturale, è comunque un vantaggio anche per svolgere mansioni di carattere manuale.
La disoccupazione intellettuale è sicuramente un problema, soprattutto in una fase storica in cui la Pubblica amministrazione non è e non sarà mai più in grado di assorbire dipendenti scolarizzati come ha fatto negli anni passati.
Al di là del caso da cui sono partite le nostre considerazioni, l’Italia è e rimane un’economia largamente manifatturiera. Bisognerà pure prenderne atto. E non è affatto necessario studiare “meno”; anzi i nostri giovani che studiano sono tuttora in numero minore dei loro coetanei di altri paesi. Si deve studiare “meglio”, soprattutto superando la netta cesura oggi esistente tra lo studio e il lavoro, che poi si ripercuote negativamente anche sull’occupabilità.