Diceva Gramsci che l’Italia soffre sia dei mali del capitalismo che dei mali del suo mancato sviluppo. E l’aforisma gramsciano suona sinistramente attuale, a ottant’anni di distanza, nel caso della Fiat e della polemica sul destino dell’impianto di Termini Imerese, di cui si parlerà anche oggi a Roma in un incontro tra il ministro per lo Sviluppo economico e l’amministratore delegato del gruppo torinese Sergio Marchionne.
Che c’entra Gramsci? C’entra, e giova capirlo per capire anche come mai le prospettive per Termini e, in generale, per un certo tipo di produzioni industriali in Italia siano così grame. Dunque, è noto che Marchionne chiede allo Stato un “tavolo” di trattativa per scongiurare quella che, diversamente, presenta come una soluzione ineluttabile: la chiusura dello stabilimento siciliano dove lavorano, tra dipendenti diretti e dell’indotto, circa 1400 dipendenti.
Marchionne dice: il costo del lavoro in Italia è tra i più alti del mondo, e questo dato basterebbe di per sé a scoraggiare la Fiat dal continuare a produrre tante auto (645 mila, quest’anno) nei cinque impianti italiani. Ma non basta: i cinque impianti sono infatti troppi, la stessa capacità produttiva concentrata in uno o due darebbe più efficienza; e la logistica di sistema (strade, treni, porti) che circonda questi impianti è inadeguata. Quindi, si chiude, o almeno si riconverte: ma in cosa, la Fiat non sembra saperlo, e attende in tal senso indicazioni (leggi: aiuti) pubblici.
Dando per scontati gli incentivi alla rottamazione: se cessassero, nel prossimo anno – sempre secondo Marchionne – sarebbe a rischio-chiusura non solo l’impianto di Termini ma anche quello di Pomigliano d’Arco, vicino Napoli. E la Fiat porta molti altri dati a supporto della sua tesi: in Italia, dice Marchionne, per produrre quelle 645 mila auto in 5 stabilimenti si devono impiegare 21.900 dipendenti; in Polonia, per farne 600 mila bastano 5.800 dipendenti in un solo impianto; in Brasile, 8.700 dipendenti per 700 mila vetture in un solo stabilimento. Come dire: ma cosa stiamo ancora a perdere tempo?
Ma anche Scajola ha i suoi bei numeri da snocciolare. In Italia produciamo il 30% delle auto che ogni anno vengono acquistate (cioè: la Fiat vende e produce, le case straniere vendono e basta). In Germania viene prodotto un numero di vetture pari al 170% di quelle che vengono vendute sul territorio nazionale! Segno che i tedeschi, pur avendo un costo del lavoro del tutto allineato a quello italiano, riescono a mantenere economicamente efficienti i loro impianti.
Ha ragione anche Scajola. Peccato però – e così torniamo a Gramsci – che nel nostro Paese tener conto solo dei numeri e dei relativi parametri economici (insomma, giocare a fare soltanto i capitalisti) è disguidante. Chiunque abbia fatto anche solo un viaggetto di piacere in Germania sa per esperienza che il tasso di efficienza delle infrastrutture e delle stesse istituzioni pubbliche tedesche è incomparabilmente migliore di quello italiano.
E che insomma produrre, confezionare, spedire dalla Germania verso il mondo è come muoversi su un piano inclinato in discesa, fare le stesse cose in Italia significa scalare ogni volta una montagna. Ecco il “mancato sviluppo” del capitalismo italiano, che Gramsci biasimava così duramente.
E allora? Allora, se nemmeno “Fenomeno Marchionne” ha saputo ribaltare le sorti declinanti della produzione italiana del gruppo Fiat, beh è proprio segno che non c’è niente da fare. Cinque stabilimenti (più uno) lontanissimi (Termini, Termoli, Melfi, Pomigliano, Cassino, Torino); un “fattore campo” infrastrutturale estremamente sfavorevole (in questo caso il “fattore-ponte” sarebbe determinante, ma il ponte sullo Stretto non c’è ancora e chissà quando e chissà se mai ci sarà); un secondo fattore campo legato al trattamento fiscale e alle difficoltà finanziarie delle imprese; insomma, produrre in Italia quel che si può agevolmente (e senza danni qualitativi!) produrre anche all’estero veramente non conviene più.
D’altronde, Scajola deve insistere: riconvertire su altri mestieri, per esempio quelli turistici, tutti i 1.400 dipendenti di Termini è impensabile. E permettere la chiusura di un tale stabilimento in una terra così aspra come la Sicilia, è ancor meno pensabile alla fine della nuova tornata di rottamazioni e in procinto di avviarne una ulteriore. E quindi?
Quindi si profila una soluzione abborracciata, di quelle che non convincono nessuno ma alla fine tutti firmano: si salveranno i posti di Termini, magari al 90%, ma non la produttività piena che Marchionne desidera, e lo si farà solo grazie ad abbondanti interventi finanziari pubblici, magari intermediati dalla Regione Sicilia e presentati come “investimenti produttivi”.
E lentamente, più lentamente di quel che accade nei Paesi concorrenti, la produzione di automobili lascerà l’Italia. Scommettiamo che tra cinque anni non nasceranno più in Italia più della metà di quelle attuali 645 mila vetture?