Ieri Fiat ha annunciato di aver trovato un accordo con il Veba per l’acquisizione delle quote ancora non detenute in Chrysler. Finiscono ieri sera quindi mesi e anni di speculazioni sullo stato delle trattative tra il gruppo di Torino e il sindacato americano, con il tribunale del Delaware che in più di un’occasione aveva posticipato la decisione sulle opzioni di acquisto di una parte della quota del Veba detenute da Fiat. Nelle ultime settimane se ne erano sentite di tutti i colori e il fumo alzato sulle trattative era stato densissimo; chi conosceva a fondo i problemi e la situazione finanziaria e competitiva di Fiat non si era fatto particolarmente fuorviare dagli annunci di nuovi programmi di investimento in Europa e di certo non aveva creduto nemmeno per un secondo che l’ipotesi di quotazione di Chrysler con rinvio a tempo indefinito del raggiungimento del 100% fosse una soluzione gradita o neutrale per Fiat. Per il Lingotto, infatti, questo accordo era di gran lunga la priorità numero uno con tutto il resto distaccato di parecchie posizioni.
D’altronde nel comunicato di ieri è lo stesso Elkann a dichiarare che “attendeva questo momento dal 2009”, mentre per Marchionne “questo è uno di quei momenti che, nella vita di un’organizzazione, finiscono nei libri di storia”. Il fatto stesso che l’accordo sia arrivato nella serata del primo gennaio e che la sua finalizzazione sia attesa per il 20 dello stesso mese testimonia quanta fretta e premura avesse Fiat. I motivi sono quelli scritti ormai da diversi trimestri e riconducibili al fatto che Chrysler sia di gran lunga la parte più redditizia del gruppo. Nel terzo trimestre del 2013 l’utile operativo di Fiat è stato di 816 milioni di euro; senza il contributo di Chrysler sarebbe stato di 27 milioni.
Sono numeri che rendono superflua qualsiasi altra osservazione. Non solo, senza il controllo totale Fiat non aveva il controllo della cassa di Chrysler che ha una situazione patrimoniale molto più solida. Fiat ieri ha concluso un processo iniziato nel 2009 che l’ha trasformata da operatore regionale a operatore globale, mettendola in una posizione competitiva infinitamente migliore rispetto a quella precedente l’entrata in Chrysler.
Ci sono almeno due conseguenze che vale la pena indagare. La prima è quella borsistico-finanziaria. Il punto di partenza è il prezzo pagato. Fiat acquisirà il 41,4616% di Chrysler che ancora non possiede entro il 20 gennaio del 2014. Il Veba riceverà 1,9 miliardi di dollari sotto forma di dividendi da Chrysler, 1,75 miliardi da Fiat e altri 700 milioni, ancora da Chrysler, in quattro rate annuali. Si possono notare due cose: il prezzo totale di 3,65 miliardi di dollari (più i 700 milioni in quattro anni) è inferiore a quanto i rumours avevano indicato negli scorsi mesi e la maggior parte dell’onere sarà a carico di Chrysler. Fiat chiude il comunicato stampa specificando che la transazione non richiederà un aumento di capitale. Questa era la principale preoccupazione del mercato relativamente all’esito delle trattative tra Fiat e Veba. Rimangono quindi tutti gli aspettivi positivi finanziari e industriali senza che ci sia “l’onere”, certamente non gradito al mercato, dell’aumento di capitale. La reazione di borsa di oggi dovrebbe con ogni probabilità riflettere questa “felice” conclusione.
La seconda conseguenza è quella relativa alla presenza industriale di Fiat in Italia. L’acquisizione del 100% di Chrysler rafforza significativamente la posizione finanziaria di Fiat e ridisegna il gruppo diminuendo la componente italiana e rafforzando quella americana. Agli occhi del mercato, oltre che nella sostanza dei fatti, Fiat è oggi una società americana; lo è perché realizza più del 90% dell’utile operativo al di là dell’oceano e perché dalla sua nuova posizione si può presentare come società globale con una pur considerevole presenza in Italia, e non più come una società italiana con una grande presenza negli Stati Uniti.
La differenza è abissale da ogni punto di vista: industriale, finanziario e legale. La quotazione a New York si può intravedere nemmeno troppo lontano all’orizzonte. Qualsiasi tipo di richiesta sindacale o del “sistema Paese” non potrà più presupporre qualcosa di “dovuto” o un trattamento di favore perché la controparte è italiana o perché per questo stesso motivo è in qualche modo “ricattabile”. Se l’Italia vuole, e dovrebbe fortissimamente volerlo dato il quadro economico e il numero di persone che ancora l’azienda oggi occupa, che Fiat mantenga gli impianti e continui a investire nel nostro Paese, deve porre le trattative sulla base della competitività del sistema e dei vantaggi che avrebbe Fiat a investire al di qua delle Alpi piuttosto che in Serbia. Qualsiasi altro ragionamento che non si basi su questo presupposto di fondo è destinato a fallire miseramente. È inutile dire che rispetto a quanto si è visto negli ultimi anni il “sistema Paese”, sindacati e burocrazia in primis, deve cambiare in fretta e enormemente.