Si è dimesso dalla carica di presidente di Banca Profilo Matteo Arpe, a seguito della decisione della Corte di Cassazione che ha riformulato le condanne – oltre che a lui, anche a Cesare Geronzi – per bancarotta associata alla gestione dei crediti della Parmalat, ai tempi in cui i due erano ai vertici dell’allora Banca di Roma. Dopo quasi dieci anni dai fatti non si è ancora pervenuti a una sentenza definitiva: gli imputati in questo tempo hanno ricoperto incarichi apicali in importanti società quotate e solo la (lodevole) decisione individuale offre l’occasione per una riflessione, che finora le autorità di controllo non sono state in grado di avviare.
Appare sempre più evidente che l’aleatorietà della pena per le malefatte societarie e finanziarie sia la regola in Italia. Ed è stato lo stesso Arpe ad aver recentemente utilizzato l’incertezza normativa per difendersi da una diversa accusa che gli è stata mossa per un caso di presunto aggiotaggio dalla Consob. In quella sede, Arpe ha fatto valere la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), favorevole niente di meno che all’avvocato Franzo Grande Stevens, multato di qualche milione di euro per un’operazione attuata nel 2005: un escamotage che consentì alla famiglia Agnelli di mantenere il controllo della Fiat, che poi è stata portata “esentasse” all’estero da Sergio Marchionne. Affari miliardari che ben giustificano rischi anche penali.
Grande Stevens e gli altri, condannati a un anno e passa dalla Corte di Appello, essendo stati poi assolti per “prescrizione” in Cassazione, hanno potuto far valere questo processo come scudo – grazie al principio del “ne bis in idem”- nei confronti della Consob e si avviano persino a richiedere un risarcimento.
Ma la sentenza della Cedu non si limita a rendere giustizia sul caso: in circa 60 pagine illustra i difetti dell’organizzazione interna della Consob e le carenze delle norme da essa adottate.
Chiaramente, aperte le cateratte, chi potrà (occorrono spese legali ingentissime) – innocente o colpevole – si avvarrà della debolezza del sistema giuridico italiano per superare indenne le ispezioni Consob che, forse, dovrà anche restituire le multe incassate.
E così gli investitori seri continueranno a considerare l’Italia il Paese di Pulcinella, dove l’autorità di vigilanza non è in grado di controllare i comportamenti irregolari, non solo per la scarsa efficacia – usualmente a vacche scappate e su fatti minori – ma anche per utilizzare un apparato normativo che, come dice la Cedu, non garantisce i diritti della difesa e non consente il contraddittorio per l’accertamento dei fatti.
Ci si sarebbe aspettati un immediato intervento della Consob di chiarimento e l’avvio di una riflessione. Ma probabilmente una normativa ambigua dà più potere discrezionale. Inoltre, se mettiamo mani a questo Regolamento, perché non dovremmo farlo per i regolamenti sanzionatori delle altre autorità (Banca d’Italia, Ivass, Antitrust)?
E quando si scoperchiano le pentole cosa esce fuori? Sono soggetti a possibili sanzioni tutti i grandi operatori dell’economia. E con la svendita in corso del patrimonio societario nazionale non sono troppi gli interessi in gioco per chiedere che anche in Italia si vada verso la “rule of the law”?
Solo lo sparuto gruppo dei senatori di Italia Lavori in Corso, ex 5stelle, ha avuto il coraggio di interrogare il Governo sulla questione.
Sono, però, temi giuridici che non appassionano le folle e i talkshow, ma che sono rilevanti per l’economia e per il lavoro, perché, come mostra il caso Fiat del 2005, se non fosse stato possibile passare indenne – anche grazie allo swap – lo scoglio del prestito convertendo, la storia sarebbe stata diversa e probabilmente la Fiat sarebbe rimasta in Italia, magari costretta a ristrutturasi nell’interesse dei lavoratori italiani e non del capitale finanziario.