Ne parlammo già in sede di commento del recente Festival di Roma: presentato come evento speciale, Popieluszko – La libertà è dentro di noi è un film da non perdere. Diretto dal giovane regista polacco Rafal Wieczynski, rievoca, a 25 anni esatti dalla violenta morte, l’uccisione di padre Jerzy Popieluszko, sacerdote nemmeno quarantenne che divenne a inizio anni ‘80 una spina nel fianco del regime comunista.
Popieluszko divenne infatti in quegli anni la guida spirituale del sindacato libero Solidarnosc, inviso al Potere. In realtà cominciò tutto casualmente, quando un gruppo di operai impegnati in duri scioperi nelle acciaierie di Varsavia chiese alla Chiesa locale un sacerdote per poter seguire la Messa anche dentro l’“assedio” dell’occupazione. Il passo successivo fu la saldatura con le proteste che si sviluppavano a Danzica, il cui leader era un elettricista di nome Lech Walesa. Da lì nacque Solidarnosc, con le sue vittorie, le sconfitte, gli arresti, la repressione. Ma anche la tenacissima resistenza, impossibile senza il ruolo discreto della Chiesa polacca (rafforzato dalla vicinanza continua di papa Giovanni Paolo II).
Di questo ruolo, padre Popieluszko fu l’interprete più visibile. Ma il film, fedelissimo ai fatti, non ne fa un santino esangue né riproduce quegli stilemi da fiction televisiva dell’eroe solitario (in Italia l’avrebbero sicuramente, ovviamente per la finzione poetica, contrapposto a qualche superiore); anzi, la Chiesa è rappresentata con grande fedeltà, fino all’incredibile apparizione del primate Jozef Glemp nei panni di se stesso (con obbligatoria, e non frivola, tinta ai capelli ormai bianchi per renderli nuovamente neri come un tempo) in due colloqui che riproducono esattamente quelli avvenuti realmente.
Dopo un breve incipit dedicato a episodi dell’infanzia e della giovinezza che fecero parte della sua formazione umana (e che gli fecero conoscere la violenza e il sopruso), il film – lungo ma appassionante – racconta appunto i fatti così come avvennero, con un senso di verità enfatizzato dall’ottima interpretazione del protagonista Adam Biedrzycki (oltre tutto davvero somigliante al martire della Polonia cattolica) e dall’inserimento di numerosi spezzoni documentari, con le vere immagini del prete polacco, di Walesa e dei vari viaggi di papa Wojtyla nella sua terra. Che contribuivano a infiammare la coscienza del popolo e a rafforzarne l’attaccamento alla sua fede.
Così vediamo Popieluszko predicare tra la sua gente (in messe strapiene di fedeli, e seguite da numerose spie), parlare di libertà e verità ma sempre fedele al suo ministero sacerdotale, ovvero non dimenticandosi mai di essere un prete e non un agitatore (come si vede in varie scene, alcune ironiche, rispetto ai suoi fedeli semplici e spesso impetuosi ma anche verso i suoi nemici che non sono mai oggetto di odio), testimone appassionato di Cristo.
Un prete comunque naturalmente scomodo, per un governo controllato dal Partito comunista polacco succube dell’Unione Sovietica. Un prete amico del popolo e della gente semplice, come gli operai e le loro famiglie, che certo trovavano nella Chiesa quella solidarietà e quel sostegno di fronte alle provocazioni e alle angherie del regime.
Un uomo mite ma deciso, di cui non si nascondono sentimenti come la paura di fronte alla violenza che via via stringe il suo cerchio attorno a lui; anche se il popolo non gli farà mai mancare il suo sostegno. Ma dopo un’esperienza in prigione, continueranno ad arrivargli minacce e intimidazioni, fino a una barbara uccisione davvero annunciata.
Essendo stato prodotto con il contributo decisivo della televisione polacca, è facile pensare – e lo hanno scritto in tanti, dal festival romano – che il film risenta di un’impostazione, appunto, televisiva e poco cinematografica. Come dicevamo, in realtà siamo ben lontani dagli standard delle opere biografiche cui ci ha abituati la televisione italiana: è vero, il film non ha invenzioni di regia o di sceneggiatura folgoranti (come poteva essere Katyn di un maestro come Andrzej Wajda, si pensi al suo potentissimo finale: ma pure in quel caso i detrattori parlarono di opere noiosa e semitelevisiva…).
Ma è una precisa scelta, che punta su un realismo semidocumentaristico per raccontare una storia importante, vicina allo spettatore polacco non più giovane, che la ricorda e che avrebbe sussultato per un’eccessiva drammatizzazione; anche se poi il risultato è appassionante e quasi epico. Ma il taglio documentaristico e a tratti didascalico, senza essere mai noioso, diventa però molto utile anche ai giovani che non hanno mai sentito parlare di quei fatti. In Polonia come altrove.
Nel nostro paese Solidarnosc e padre Popieluszko, 25 anni fa, erano nomi familiari e cari almeno ai cattolici. Oggi, ahinoi, se ne è persa la memoria. Questo film giunge dunque prezioso a rinnovarla. Giovanni Paolo II lo definì un “autentico profeta dell’Europa, quella che afferma la vita attraverso la morte”. In un’Europa che invece oggi dimentica le sue radici, è quanto mai opportuno ricordare questo martire cristiano del nostro continente, la cui morte precedette di pochi anni il crollo del comunismo e del dominio sovietico sui paesi dell’Est.