Dopo venticinque anni di sanguinosa guerra civile contro le Fondazioni, l’Azienda-Italia si rivolge a loro per salvare il salvabile del suo sistema bancario. Sulla Fondazione CariVerona – già impegnata a sostenere UniCredit – premono le tre Popolari del Nordest (Banco,Vicenza e Veneto) a caccia di 3,7 miliardi di capitali freschi. Il Banco Popolare, per approdare alla fusione con Bpm, vorrebbe essere appoggiato anche da CariLucca. L’aumento della Vicenza è pre-garantito da UniCredit, che pero – stando a quanto scrive il Fatto Quotidiano – avrebbe già avvertito riservatamente le autorità monetarie sulle difficoltà crescenti che sta incontrando la ricapitalizzazione. L’aumento di capitale di Veneto Banca, d’altronde, è contrattualmente garantito da Banca Imi (Intesa Sanpaolo): fra i cui azionisti stabili c’è anche la Fondazione Cassa Padova Rovigo.
E a proposito di Intesa: l’Ente CariFirenze ha annunciato che appoggerà la nomina di Gian Maria Gros-Pietro a presidente, ma solo dall’esterno, da socio finanziario. Un segnale poco equivocabile: la fondazione di Firenze, vicinissima all’ex sindaco Matteo Renzi, vuole liberarsi le mani per spostare altrove il peso dei suoi investimenti bancari. Dove? Forse nella Nuova Banca Etruria, che dev’essere ricollocata entro settembre assieme a Marche, Carife e Carichieti? Oppure sul “bersaglio grosso”, il salvataggio finale di Mps?
È stato il presidente dell’Acri e della Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti, a prospettare pochi giorni fa “una soluzione per Mps e Carige”. Già: i due gruppi bancari affondati dopo essere stati controllati dalle rispettive Fondazioni municipali oltre ogni tempo massimo. Il Monte – più di Carige – è il “buco nero” che continua a preoccupare tutti in Italia: governo, autorità monetarie, “sistema”. È troppo per un “cavaliere bianco” solo: e non a caso il ministero dell’Economia aveva pensato in un primo momento al tandem, Bpm-Ubi. Ma per ora – almeno sulla carta – il progetto Banco-Bpm va avanti.
Nel frattempo sta prendendo forma un piano più complesso, forse addirittura un “piano generale” – definitivo – per mettere in sicurezza tutte le criticità del sistema creditizio nazionale. I rumor convergono su una sorta di nuovo “fondo nazionale”: un veicolo più strutturato di quello – peraltro ufficiale – partorito in tutta fretta lo scorso novembre per le risoluzioni di Banca Etruria & C. Di qui, ovviamente, l’idea di coinvolgere la Cassa depositi e prestiti, di per sé riconcepita da Renzi come banca “di ricostruzione nazionale”. Un passepartout affidato all’ex banchiere di Goldman Sachs Claudio Costamagna; e soprattutto un’istituzione già sostanziosamente partecipata dalle Fondazioni a fianco del Tesoro. Il format, del resto, è già stato ampiamente utilizzato per allestire la filiera di fondi strategici della Cassa: da F2I (infrastrutture) a FII e FSI (private equity imprese) al fondo per il social housing: tutti partecipati in parte da banche, assicurazioni, casse previdenziali, grandi investitori italiani ed esteri.
Sono abbastanza evidenti le ragioni che spingono il governo a mettere sul tavolo un “Istituto di Ricostruzione Bancaria ” (Irb). La prima e più importante è la necessità di aggirare l’inflessibilità – istituzionale e politica – di Ue e della vigilanza Bce verso gli interventi pubblici sulle banche italiane: siano essi la bad bank per smaltire le sofferenze creditizie o veri e propri ingressi nel capitale. La “nuova Cdp” è nata d’altronde con la stessa motivazione, una dozzina d’anni fa: dotare il governo di uno strumento flessibile grazie alla presenza nel capitale di soggetti formalmente non pubblici come le Fondazioni. È stato così che la Cdp ha potuto far da cassaforte-parcheggio per quote di Eni, Enel, Poste, Terna. Da qui all’Ilva il passo è già impostato: come del resto quello dal fondo F2I in Sorgenia (gruppo Cir). Quelli verso Mps (o Etruria, o Popolare di Vicenza, o Banco-Bpm o la nuova capogruppo del Credito cooperativo) si profilano già come piccole “mosse del cavallo”, quasi conseguenti.
Coerenti con questo disegno (ipotetico) appaiono alcune operazioni (reali) messe in cantiere dal governo, pur tra parecchi dubbi e difficoltà: un (non meglio precisato) “fondo di sostegno per le Bcc” contemplato dal testo finale della riforma approvata mercoledì; e soprattutto le controverse misure di rimborso agli obbligazionisti subordinati colpiti al 100% dalle risoluzioni delle quattro banche. Chi può dire, a Pasqua 2016, che non ci saranno altri e più dolorosi dissesti per banche e risparmiatori? E se il piano Banco-Bpm prevede 1 miliardo di aumento e 10 miliardi di sofferenze da gestire, chi può ragionevolmente intervenire nei tempi e nei modi previsti se non un “Irb”?
Tutto a posto? Non è detto. Perché una Fondazione Cariplo, una Compagnia Sanpaolo, una Cariverona, una Crt, una CariParo, una Cariparma, ecc. dovrebbero versare centinaia di milioni all’Irb? I loro non sono patrimoni “pubblici”, ma “di privato sociale”: lo ha stabilito la Corte Costituzionale nel 2003 dopo due anni di battaglia, la più violenta scatenata contro le Fondazioni dalla legge Amato del 1990. Fu Giulio Tremonti – salvo pentirsene apertamente anni dopo – a tentare una ripubblicizzazione forzata delle Fondazioni: sconfitta su tutta la linea dalla resistenza pilotata dall’Acri di Guzzetti. Non è mai cessato, d’altronde, il lobbyismo di Mediobanca e dei circoli liberisti per la rottamazione dei “Frankenstein” inventati da Giuliano Amato, Beniamino Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi per favorire la privatizzazione delle banche statali.
Fu proprio Mediobanca, a metà anni ’90, a proporre una gestione centralizzata del riassetto bancario pre-euro, in chiave anti-Fondazioni. Vent’anni dopo, il governo Renzi – non senza ragioni – guarda all’utilizzo “centralizzato” (“tremontiano”) di parte dei patrimoni delle Fondazioni per rimettere in sesto il sistema bancario. Almeno un’alternativa c’è: lasciar fare alle Fondazioni. “Risolvere” le banche dissestate – pur con tutti i danni del caso ad azionisti e obbligazionisti – e far intervenire le singole Fondazioni sulle singole banche “ripulite”. Certo è un’alternativa chiaramente poco appetibile per l’one-man-premier. Che però sta imparando – in fretta, spesso dai suoi errori – quanto il sistema bancario sia un playground enormememente più complesso e insidioso rispetto ai suoi preferiti: siano essi le riforme istituzionali, le unioni civili o perfino i migranti a Lampedusa.