Ieri a Palazzo Chigi – assente però il premier Matteo Renzi e il co-premier Maria Elena Boschi – si è svolto un vertice d’emergenza sulla crisi sempre più preoccupante del settore bancario. Un vero consiglio di guerra: il ministro dell’Economia, il governatore della Banca d’Italia, il presidente dell’Acri (Fondazioni), il presidente e l’amministratore delegato della Cassa depoisti e prestiti, i Ceo delle prime tre banche italiane (UniCredit, Intesa Sanpaolo, Ubi).
Sul tavolo tutti i problemi causa di un crollo dei titoli bancari italiani in Borsa: quello che ha portato sotto la soglia dei 3 euro UniCredit, che dovrebbe garantire l’aumento-salvataggio della popolare di Vicenza; o quello che ha fatto perdere il 71% da inizio anno al Banco Popolare: candidato alla fusione con Bpm in quella che è finora l’unica aggregazione strategica messa in cantiere dal sistema. Quindi: difficile smaltimento delle sofferenze creditizie (Npl, oltre 200 miliardi); fame di capitali da parte di molte banche che devono ricapitalizzare (oltre a Pop. Vicenza e Banco anche Veneto Banca, Carige e altre su cui la Bce tiene i fari accesi), ma anche da parte del Fondo italiano di risoluzione che dovrebbe rivendere entro il 3 settembre la quattro banche risolte (Etruria & C.).
Sul tavolo un unico brandello di strumento risolutivo: quello che già abbiamo battezzato Istituto di ricostruzione bancaria. Un veicolo di cui però – neppure ieri – è stato deciso nulla. La Cdp lo dovrà promuovere o soltanto garantire? Di quanto capitale dovrà essere diotato (10, 20, 50 miliardi)? Chi saranno gli azionisti: fondazioni bancarie o anche fondi internazionali come Apollo? Chi guiderà il veicolo per fare cosa? Per essere la bad bank italiana che l’Ue ha prima negato poi concesso ma in un formato inservibile (Gacs)? Oppure dovrà essere una holding di banche decotte o in ristrutturazione (come l’Iri negli anni 30)? Dovrà comprare Npl o azioni bancarie? A quali prezzi, con quali rischi, con quali prospettive di redditività? In concreto: si ritroverà a essere un concorrente di Apollo nel mercato fiorente degli “avvoltoi” di Npl? Oppure chiederà ad Apollo e simili (magari Algebris del finanziere Davide Serra..) di essere azionisti del Veicolo, facendo confluire singoli interessi su Carige o sulle banche risolte?
Gli interrogativi potrebbero proseguire all’infinito: non ultimo quello riguardante il ruolo della Fondazioni. Che con l’occhio destro il Tesoro le vigila severamente, obbligandole alla controllo del rischio, alla ricerca di un reddito sostenibile per le erogazioni e alla riduzione dell’esposizione verso le banche; e con la mano sinistra (non da ieri) le spinge a investire in banche rischiose e con incerte prospettive di ritorno.
L’unica certezza sembra essere che il governo (di centrosinistra) vuole rimettere le mani sui patrimoni delle Fondazioni (come provarono a fare Berlusconi e Tremonti) per gestire per via statale e centralistica la crisi generale del sistema provocata dal governo stesso: dalla sua totale assenza di peso e prestigio politico in sede europea (Ue e Bce) unita ai limiti evidentissimi di capacità di governo di settori strategici del Paese, tutti quelli emersi nella catastrofica gestione delle risoluzioni bancarie lo scorso novembre. Sarebbe per certi versi preferibile scorgere dietro la “linea Renzi” in campo bancario una strategia: una sorta di “Britannia-2”, più brutale da parte dei mercati e dilettantesco da parte del sistema-Italia, per privarlo definitivamente di un proprio sistema finanziario. Purtroppo c’è solo un pezzo importante di Italia che viene lasciato marcire perché poi il premier ne tragga piccoli utili rottamatori.