Prosegue anche nella giornata di oggi la doppia programmazione cinematografica – pomeridiana e serale – inserita nell’ambito della 33a edizione del Meeting di Rimini, in corso di svolgimento presso i padiglioni della Fiera della città romagnola e con titolo “La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”. Ad aprire le proiezioni alle ore 14:30 nell’ormai consueto spazio della Sala Cinema D7 ACEC sarà Arrietty – Il mondo segreto sotto il pavimento (Karigurashi no Arrietty, 2010) per la regia di Hiromasa Yonebayashi (detto Maro, al suo esordio) su sceneggiatura del maestro nipponico del cinema di animazione Hayao Miyazaki (classe 1941) e con produzione del suo Studio Ghibli. Alle 21:30 sarà invece la volta dell’ancora inedito in Italia Tatarak – Sweet Rush (Tatarak, 2009), diretto dal più eminente esponente della cinematografia polacca, Andrzej Wajda (classe 1926), e premio “Alfred Bauer” – ex aequo con Gigante (2009) di Adrián Biniez – alla 59ª edizione del Festival del cinema di Berlino. Vale la pena ricordare che già tre anni fa questo grande regista – premio Oscar 2000 e Orso d’Oro 2006, entrambi alla carriera – aveva commosso la platea riminese con Katyn (2007), proiettato nell’ambito della 30ª edizione del “Meeting per l’amicizia fra i popoli”.
La prima pellicola in programma rappresenta un’altra bella occasione per entrare nel ricchissimo universo visivo e interiore del Leone d’oro alla carriera 2005 (anche se qui nel “semplice” ruolo di cosceneggiatore), il cui profondo incanto ed estrema grazia sono ormai sotto gli occhi di tutti, grandi e piccoli, e non solo di una ristretta cerchia di appassionati, dopo titoli quali Il castello nel cielo (Tenkû no shiro Rapyuta, 1986), Il mio vicino Totoro (Tonari No Totoro, 1988), Porco rosso (Kurenai no buta, 1992), Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997), La città incantata (Sen To Chihiro No Kamikakushi, 2001), Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004) e Ponyo sulla scogliera (Gake no ue no Ponyo, 2008).
Tratto dal romanzo “The Borrowers” della scrittrice inglese Mary Norton (1903-1992) edito in Italia come “Sotto il pavimento”, il film narra la prima avventura degli Sgraffìgnoli: è la storia di un’imprevedibile e sorprendente amicizia che nasce e legherà per sempre il giovanissimo Sho, costretto al riposo forzato in una vecchia casa di campagna in attesa di una delicata operazione al cuore, e la sua “coetanea” Arrietty, unica figlia di una famiglia di minuscoli esseri che si fanno chiamare “prendinprestito” (i cosiddetti “borrowers” del libro della Norton) e che vivono sotto le tavole del pavimento, muovendosi per recuperare quanto necessario alla loro sopravvivenza solo di notte ed evitando accuratamente il contatto con gli abitanti della casa.
Una volta di più non si può non restare affascinati e avvinti dall’andamento impresso alla narrazione e dalla poesia che sprigionano le immagini di una storia prima letteralmente adattata e poi visibilmente ispirata dal genio creativo di Miyazaki: dentro i fotogrammi di quest’opera riescono a fare capolino sia il sentimento di meraviglia per ciò che c’è, sia il senso di dramma – non tragedia – che la vita vissuta (fatta di movimenti dell’anima, di prove anche sofferte e di distacchi) porta con sé, perfettamente reso dall’ultimo incontro tra i due giovanissimi protagonisti, giovanissimi come il pubblico a cui pure il film vuole rivolgersi.
La seconda pellicola è invece un “film nel film” che racconta la vicenda di Marta (interpretata da Krystyna Janda), una bella donna di mezza età sposata con un medico di provincia in una Polonia ancora segnata dal ricordo e dal dolore per quanti hanno perso la vita durante la Seconda guerra mondiale, tra i quali i figli della coppia. Il medico scopre che la salute della moglie è minata da un tumore incurabile e che le restano pochi mesi di vita, ma decide di non dirle nulla. Nel frattempo Marta inizia una fresca relazione con il giovane e atletico Bogus, verso cui la attrae un non meglio definito affetto.
La vicenda fin qui riassunta attinge da un racconto dello scrittore Jaroslaw Iwaszkiewicz. Mentre però il film era in lavorazione l’attrice Krystyna Janda si è trovata improvvisamente a dover vivere una tragedia simile a quella appena accennata. Suo marito Edward Klosinski (noto direttore della fotografia, collaboratore e amico di Wajda a cui la pellicola è dedicata) si è infatti ammalato di cancro ai polmoni per morirne di lì a un anno, il 5 gennaio 2008. Alla ripresa del lavori l’attrice ha scritto alcune pagine sui tristi mesi precedenti e il regista l’ha invitata con molta libertà a inserirle nell’opera. Sono nate in questo modo alcune sequenze – alternate alla storia di partenza – in cui la Janda rievoca il suo percorso accanto al marito durante il suo ultimo anno di vita.
La pellicola – per alcuni uno dei vertici della carriera dell’ottantaseienne autore polacco – si vuole quindi proporre come una partecipata riflessione sul dolore e sulla morte, sulla malattia e sul modo in cui a essa ci si può rapportare. Wajda non si è limitato di certo a dirigere una tradizionale pellicola metacinematografica, ma ha inteso scavare a fondo nella drammatica esperienza umana da cui ha lasciato che il film venisse investito: quella di Krystyna Janda è un’esperienza realmente vissuta che l’attrice ha reinterpretato davanti alla macchina da presa, alla quale è stato chiesto l’immane compito di riflettere sullo schermo il mistero di un’esistenza posta di fronte al proprio limite naturale (anche se qui accelerato da una crudele malattia): un viatico assolutamente impensabile per il racconto del dramma del dolore e del valore di un amore.