Nel rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato da Banca d’Italia ieri si può leggere che “gli indicatori segnalano un forte aumento della volatilità attesa per il mercato italiano a ridosso della prima settimana di dicembre, in corrispondenza con il referendum sulla riforma costituzionale”. Questa frase è bastata per un allarme diffuso sul referendum dopo l’analisi, probabilmente interessata, del primo ministro Renzi su una possibile correlazione della vittoria del no con l’aumento dello spread.
È opportuno forse fare alcune considerazioni. L’aumento della volatilità è normale quando si apre una fase che può portare a un cambiamento che non si conosce. Se vincesse il sì sapremmo cosa aspettarci per i prossimi due anni, ma se vincesse il no si aprirebbero opzioni che al momento è impossibile conoscere. Partiamo dal presupposto che molto probabilmente al mercato non interessino gli effetti di lungo termine del referendum. In un contesto in cui cambiamenti radicali, la Brexit o la vittoria di Trump, avvengono con questa velocità e in modo così inatteso, conta molto di più, per i mercati, quello che succederà nei prossimi dodici mesi piuttosto che le prospettive economiche italiane del prossimo decennio.
La volatilità di cui si parla è quella a cui abbiamo assistito “sulle borse” settimana scorsa, quando si è capito che Trump sarebbe diventato il prossimo presidente degli Stati Uniti. I futures sui principali indici azionari americani la mattina successiva alle elezioni, prima dell’apertura, erano in profondo rosso e chi li guardava prevedeva una giornata di passione finanziaria. Nel corso della giornata i cali paurosi si sono ridotti e alla fine le borse hanno chiuso in deciso rialzo. La volatilità è stata decisamente superiore alla media, ma alla fine il mercato ha misurato la novità, ha deciso che non era “cattiva” e ha comprato con maggiore decisione. La domanda a cui risponderà il mercato il giorno dopo al referendum è se la prosecuzione del governo attuale, che si è legato all’esito della consultazione, sia una buona o cattiva notizia e se, in caso di vittoria del no, l’alternativa sia migliore o peggiore.
Nello stesso rapporto della Banca d’Italia si legge che “l’indice generale della borsa italiana continua a risentire della debolezza del settore bancario”. Le banche italiane hanno messo a segno negli ultimi dodici mesi una performance pessima e hanno trascinato al ribasso tutto il listino italiano. Il sistema bancario in difficoltà è molto di più che qualche giorno di ribasso in borsa, perché significa meno crediti all’economia e sfiducia tra i consumatori. Il sistema bancario italiano risente di due recessioni, una globale nel 2008 e una per gentile concessione europea via Monti nel 2012. La causa scatenante però di quello a cui abbiamo assistito negli ultimi dodici mesi è il “fallimento” di alcune piccole banche locali nell’autunno del 2015 e poi l’incapacità di risolvere per tempo e in modo convincente i casi problematici, tra cui in particolare Mps. Le difficoltà sono aggravate da un pessimo rapporto con l’Europa che non lascia nessuna flessibilità all’Italia.
Tutti gli indicatori e molti analisti concordano nel sostenere che gli investitori globali siano usciti dal mercato italiano da molti mesi, probabilmente appunto dall’inizio della crisi bancaria dell’autunno dell’anno scorso. L’indice azionario italiano è il peggiore d’Europa nel 2016. Lo stesso referendum ha obbligato il Paese a una campagna elettorale lunghissima in cui il governo ha dovuto mettere da parte le “riforme” dovendo porsi il problema di come convincere un elettorato sfiduciato; la risposta in questo caso è stata anche una serie di riforme ad hoc pre-elettorali che sicuramente non piacciono ai nostri creditori. Oggi non abbiamo un investitore globale investito in Italia che il giorno dopo vende, ma molto probabilmente abbiamo una platea di investitori internazionali che non sono investiti in Italia, che se la sono dimenticata da un pezzo e che devono decidere se valga la pena rientrarci o no.
Il primo ministro attuale è in carica da quasi tre anni, febbraio 2014, ed evidentemente, sicuramente per molte ragioni, non è riuscito a invertire la rotta dell’economia, quella del debito pubblico, e in particolare della macchina burocratico-statale che lo genera, o a risolvere la questione bancaria che sta affossando i listini da dodici mesi. Non sappiamo cosa succederà il giorno dopo un’eventuale vittoria del no, ma sappiamo che ci sarà volatilità. Non si può essere sicuri di come si concluda questa volatilità, ma c’è una chance di “vendere” un cambiamento in meglio rispetto a quello visto negli ultimi tre anni. Se il mercato italiano è sceso per le difficoltà economiche italiane, per il debito e per le banche perché dovrebbe salire nei prossimi dodici mesi se la situazione rimane identica? Perché si potrà fare con ancora più convinzione e velocità quello che finora non ha funzionato sotto lo stesso presidente e la stessa squadra? Convincere un investitore americano a rientrare con queste ragioni sembra davvero impossibile…