Prima di qualsiasi analisi su quanto è cambiato nel mio lavoro dopo il fallimento di Lehman Brothers vorrei cercare di trasmettere, per quanto possibile, ai lettori de ilsussidiario.net le sensazioni e lo stato d’animo con cui si sono vissuti i mesi dell’autunno 2008 dall’altra parte della barricata, quel mondo strano e un po’ speciale delle banche d’investimento e delle società di servizi finanziari.
La primissima considerazione è che si assisteva attoniti e sgomenti a eventi fino al quel momento considerati più che impossibili e fuori dall’ordine delle cose, che non venivano contemplati (o solo come ipotetici casi di scuola) nemmeno nei testi universitari. Già all’inizio della primavera 2007 si era fatta strada la percezione diffusa che qualcosa nei mercati finanziari fosse sbagliato e che si fosse in una situazione di eccessiva e immotivata euforia, ma nulla faceva prevedere la vastità e la rapidità degli sconvolgimenti che si sono poi verificati.
Le file fuori dalle banche per ritirare i soldi erano immagini da crisi del ‘29 a poco più di un anno dalla fine di uno dei periodi migliori dell’economia e dei mercati. Chi adesso dà dello sprovveduto a economisti e analisti in moltissimi casi si fa forza del senno di poi e di qualche generalissima predizione molto simile a un “prima o poi pioverà” quando il cielo è nuvoloso; una previsione facile da azzeccare ma di utilità e originalità molto dubbie.
La seconda considerazione è che da questa parte della barricata i rischi che si stavano correndo e le conseguenze di quanto stava accadendo erano molto più chiare di quanto lo fossero per chi stava “nell’economia reale”. Tanto è vero che le imprese sono andate avanti per mesi senza accusare eccessive conseguenze per poi ritrovarsi quasi di colpo nel pieno della tempesta più nera.
La crisi ha spazzato via i ristretti schemi mentali e i punti di riferimento con cui si era abituati a ragionare di società e investimenti. Molti elementi e possibilità non venivano contemplati nella certezza che si fosse davanti a ipotesi remote o di qualche rilevanza solo in un orizzonte temporale molto più lungo di quanto interessasse a chiunque. In parole semplici ci si era abituati a un contesto che veniva considerato “normale” e fisso e non c’era nessun incentivo a osservare la realtà in altro modo. Oggi non è più possibile prescindere da una visione più generale e completa che richiede di prestare attenzione ad aspetti molteplici e diversi tra loro e che spesso non sono direttamente legati all’oggetto di studio.
La crisi ha reso più evidenti alcuni aspetti non numerici e materiali delle imprese; un’impresa funzionale che ha saputo e ha ancora voglia di investire bene e con lungimiranza senza ricorrere a leva finanziaria fine a sé stessa è più riconoscibile di quanto lo fosse l’autunno scorso e ciò è un grande aiuto per chi vuole investire per il medio-lungo termine. Chi ha attraversato questo periodo è oggi professionalmente più attrezzato e una risorsa preziosa per il futuro.
Se l’accusa invece è che l’andazzo generale è rimasto lo stesso nell’ultimo anno, allora anche il migliore degli avvocati avrebbe poco spazio di manovra. I media, con poche eccezioni, non hanno aiutato a capire quanto successo e soprattutto sembrano non riuscire a indicare bene i punti più sensibili su cui occorre lavorare. L’attenzione si è infatti, forse inevitabilmente, concentrata sugli aspetti più sensazionalistici dei problemi e del mondo finanziario.
Una certa esasperata attenzione a regole più stringenti, ad esempio, può essere quanto di più fuorviante ci sia. Nessuno ovviamente è per il mercato selvaggio o per l’impunità totale ma sembra un’illusione poter rendere tutti onesti con regole particolareggiate pianificate a tavolino. Come in molti altri casi si ha a che fare con un settore dove le “nuove invenzioni” precedono di molto le leggi e dove certe zona d’ombra o certi confini labili sono sostanzialmente ineliminabili.
Altri aspetti sembrano a chi scrive maggiormente degni di nota. Istituzioni finanziarie gigantesche presenti in ogni parte del globo sono difficilmente controllabili dalle autorità, tanto più se a spartirsi il potere è un numero contenuto di soggetti. A questo riguardo negli ultimi mesi le cose sono peggiorate e ora ci troviamo con meno operatori con maggiori quote di mercato; operatori oltre tutto convinti di non poter fallire dopo aver toccato con mano come gli Stati abbiano rimediato a ogni difficoltà a prescindere da qualsiasi distinzione tra gli operatori e da qualsiasi merito o demerito.
Che il sistema finanziario sia ancora in piedi è un bene per tutti, ma forse era augurabile una maggiore attenzione, mentre non lascia tranquilli la preoccupazione di come si possa arginare il potere dei grandissimi rimasti. Insieme alla dimensione degli incentivi (soprattutto nel mondo anglosassone che però è il più meritocratico) che sicuramente lascia perplessi e che sfocia in una concorrenza sleale nei confronti dell’industria nell’attrarre talenti ciò che più colpisce è il ristretto orizzonte temporale su cui sono basati.
Che piaccia o meno la moralità di chi lavora in finanza è in media la stessa della società; non c’è differenza. Nessuno ha passato test in cui si certificava la malvagità o l’insensibilità alle altrui disgrazie. Quello che è vero è che il premio per il rischio è troppo alto e misurato in un orizzonte temporale troppo corto. In generale ancora in questi giorni chi rischia di più vince tanto nel breve e corre pochi rischi nel lungo termine.
Insomma dopo il caso Lehman il sistema finanziario si è preso un grandissimo spavento, ma non sembra al momento aver sviluppato gli anticorpi necessari a evitare la malattia di cui ha rischiato di morire.