Assogestioni ha comunicato ieri i dati relativi alla raccolta netta delle gestioni collettive in Italia a febbraio, che è stata positiva per 11,8 miliardi di euro segnando uno dei dati mensili migliori di sempre (è il dato migliore dal 1998); la cifra è di quelle difficili da ignorare, soprattutto se scala tutte le classifiche degli ultimi 15 anni. La “fame” di risparmio gestito che ha portato a questo risultato è evidentemente grande e il dato offre diversi spunti che vale la pena affrontare.
Le ragioni di questa performance sono molteplici. Il fatto che i prodotti più tradizionali e meno complessi, dai conti correnti alle obbligazioni statali passando per quelle corporate, offrano ormai rendimenti risibili determina un grande incentivo anche nei risparmiatori meno sofisticati a cercare forme di risparmio che consentano una remunerazione del capitale più consistente e che è difficile ottenere autonomamente; il mercato azionario sarebbe, al momento, un’alternativa valida e sicuramente negli ultimi dodici mesi ha regalato performance significative, ma, quasi sicuramente, ha perso molto del suo fascino presso il grande pubblico dato che quota a meno della metà dei massimi con cinque anni di montagne russe (in realtà, molto più discese che salite) particolarmente ostiche anche per i gestori più esperti e preparati. Storicamente poi il risparmiatore italiano è entrato sul mercato nel momento sbagliato e, probabilmente, porta ancora i segni delle fregature rimediate; da qui lo spostamento verso strutture specializzate che riescano a selezionare strumenti in grado dare al cliente-risparmiatore un rendimento accettabile.
Tra gli altri aspetti “tecnici” potrebbe rientrare anche il minor bisogno delle banche di collocare le proprie obbligazioni in seguito a una diminuzione di attivi e impieghi per mantenere elevati i requisiti patrimoniali. Infine, in Italia si sono sviluppate società di gestione del risparmio importanti e con reti commerciali autonome rispetto a quelle delle banche con cui competono e a cui “rubano” masse e clienti; questo pone al sistema bancario tradizionale una sfida per niente banale. Le professionalità e il dinamismo delle reti indipendenti rappresentano un concorrente temibile a cui si dovrebbe rispondere con investimenti in figure professionali che sappiano consigliare il cliente in un mondo diventato molto più complesso e in cui per garantire rendimenti occorrono competenze specialistiche.
L’altro aspetto che viene evidenziato in modo netto dai dati di febbraio è che il risparmio rappresenta, ancora oggi e nonostante cinque anni consecutivi di crisi drammatica, una risorsa del Paese anche perché gli italiani non hanno mai sposato la cultura del debito. Gli italiani hanno risparmi ingenti anche rispetto al resto dei paesi europei e, se appena possono, risparmiano. Questo è senza dubbio un elemento di forza e una risorsa per il Paese. L’osservazione può sembrare a prima vista banale e priva di conseguenze. Invece il risparmio viene presentato quasi esclusivamente come una fonte di entrate fiscali.
Questo “sguardo” ha almeno due conseguenze nefaste: la prima è che l’industria che vive intorno al risparmio non viene percepita, incredibilmente, come una possibile fonte di ricchezza e sviluppo. I soldi degli italiani gestiti, per esempio, a Londra o a Lugano pagano stipendi, affitti e tasse a Londra e a Lugano. La perdita netta per il sistema è notevole, anche perché sfuggire alle tasse italiane, nel settore della finanza, è semplice e legale. La Tobin tax introdotta in Italia, ma non a Londra, è un esempio lampante di questa miopia clamorosa che crea uno svantaggio evidente al mercato italiano nei confronti di quello londinese per un gettito fiscale modesto e, tra l’altro, molto inferiore alle attese. La competizione non è tra l’Italia e oscuri paradisi fiscali, ma tra Italia e Londra, Lussemburgo, ecc. In questo senso avrebbe senso che la tassazione del sistema si adeguasse a quella dei principali “competitor”.
La seconda conseguenza nefasta è una certa mancanza di lungimiranza, innovazione e lucidità quando si guarda al settore. Si incentiva fiscalmente l’acquisto di bond statali garantendo al debito pubblico compratori (lo Stato rinuncia alle tasse solo quando deve piazzare a qualcuno il suo debito) evidentemente diminuendo la pressione a fare efficienze ed eliminare sprechi, ma non si prevede nulla perché, per esempio, ci sia un incentivo affinché i risparmi italiani finanzino piccole e medie imprese italiane attraverso strumenti dedicati e fruibili dai piccoli risparmiatori (per esempio, i mini bond). Il risparmio è un’industria in cui l’Italia ha “un’eccellenza”, ma che si sta lentamente perdendo per strada mentre la concorrenza estera, sul risparmio degli italiani, è agguerrita e non sempre assicura un’ottica “di sistema”. I dati di febbraio, più che proclami di successo, dovrebbero suscitare domande e proposte.