Nell’ambito delle proiezioni di celebri titoli in versione restaurata, la sessantanovesima Mostra del Cinema di Venezia onora oggi, nella sua serata finale, il capolavoro di Ingmar Bergman Fanny e Alexander (1982), di cui anche ricorre il trentennale della prima. Il film, che vinse ben quattro premi Oscar, un record per un film non in lingua inglese – tra cui quello per il miglior film straniero –, è da considerarsi come il testamento, estetico e poetico, del grande regista svedese. Rivelò lo stesso Bergman di aver scritto, nelle note preparatorie al film: “Voglio finalmente rappresentare quella gioia che io, nonostante tutto, porto dentro di me, e a cui tanto di rado e tanto debolmente do vita nel mio lavoro. Descrivere l’energia, la vitalità, la bontà. Non sarebbe poi così male, per una volta”. Fanny e Alexander, infatti, è un lungo e articolato film, ricco di contenuti e sfumature, da cui in ultima analisi emerge una sorta di dichiarazione d’amore per la vita e per l’arte, per le forme mediatico-mimetiche con cui essa – la vita – viene più spesso rappresentata, cioè teatro e cinema.
Il racconto è ambientato in una cittadina di provincia nella Svezia di inizio novecento, dove vive la famiglia Ekdahl, borghese e matriarcale capeggiata dalla tenera nonna Helena, ex attrice di teatro. Alexander, giovane adolescente e sognatore, e la sorella Fanny, ancora bambina, si affacciano alla vita mentre il padre, attore e direttore di teatro, muore recitando l’Amleto. Così la madre si risposa con un pastore protestante, nella speranza di trovare verità e conforto per sé e per i figli. Trova invece una famiglia crudele, devota ad un culto religioso traviato in un’atmosfera di mortificazione e penitenza. Dopo alterne vicende, i due ragazzi vengono sottratti alla cattiveria del patrigno grazie all’intervento dell’usuraio ebreo Jacobi, amico della loro amatissima nonna. Ritornati così nella grande casa della famiglia originaria, Alexander e la piccola Fanny vi ritrovano serenità, amore, generosità e fantasia.
Fanny e Alexander fu prodotto originariamente solo per la televisione, diviso in cinque puntate per un totale di 312 minuti. La riduzione cinematografica a 197 minuti, doverosamente effettuata ma ritenuta dallo stesso regista un mero ripiego, è quella maggiormente conosciuta ed apprezzata dal pubblico come dalla critica, nonostante in essa si assista, misteriosamente, all’inattesa comparsa (o scomparsa) di alcuni personaggi secondari: inevitabile tributo pagato ai tagli di montaggio.
La suddetta breve descrizione dell’intreccio non rende, ovviamente, giustizia né al rigore formale né alla ricchezza di contenuti del film. La complessa vicenda di snoda infatti tra una sessantina di personaggi, divisi in quattro gruppi, e tre ambienti principali, cioè le tre case, dando ampia sostanza al regista per mettere in scena tre tematiche, forse quelle fondamentali di tutto il suo cinema: il rapporto tra arte (teatro e cinema) e vita, la grevità della religione e la magia del sogno. Bergman costruisce il tutto partendo dai ricordi, suoi personali della sua infanzia, e da lontane reminiscenze delle sue esperienze teatrali. A questi aggiunge, con l’abilità narrativa del grande autore, episodi e personaggi simbolo parafrasati – quasi – da alcuni grandi della letteratura e del teatro (Dickens, Strindberg, Ibsen, Shakespeare), per giungere ad una conclusione un po’ insolita per il suo cinema: la serena conciliazione tra gli opposti poli della vita, e la sua armonica rappresentazione nell’arte.
Ma il fascino esercitato dal film nasce, probabilmente, più da altre due caratteristiche. La prima si rintraccia nel modo in cui Bergman ritrae i caratteri dei personaggi, con tocchi di delicatezza e lirismo che rafforzano, anziché indebolire, l’architettura drammatica della storia. La seconda attiene al messaggio ultimo del film, che riassume in se i tre temi suddetti, ed anche – forse – l’intero spirito dell’arte di Bergman: l’affermazione dell’imperfezione come segno distintivo ed eletto dell’umanità tutta.
Sul piano puramente formale, il film è visivamente splendido: il leggendario direttore della fotografia Sven Nykvist, anch’egli premiato con l’Oscar per questo lavoro, risolve abilmente il difficile compito di evidenziare cromaticamente il contrasto tra i diversi ambienti: il calore della famiglia d’origine, legata al mondo del teatro, la magia dell’ambiente ebraico e dei suoi personaggi, la freddezza puritana e falsa del contesto religioso.
All’uscita del film nel 1982, Bergman annunciò la fine della sua carriera di regista cinematografico, dopo trentotto lungometraggi sceneggiati e diretti in quasi quarant’anni, durante i quali ha anche svolto – ad intermittenza – l’attività di direttore e regista teatrale. Non sorprende, quindi, che il film sia una sorta di poetico compendio di tutto il suo cinema, di rara intensità e bellezza. “Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono, l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni”, recita la nonna Helena ad Alexander, leggendogli un libro di fiabe tradizionali. Frase simbolo dell’intero film, che non a caso contiene una enunciazione dell’essenza stessa del cinema che si rifà alla magia della “lanterna magica”, proprio come Ingmar Bergman amava definire la settima arte.