A decidere il ricambio al vertice delle Generali è stato, con aperta determinazione, Leonardo Del Vecchio, definito, pochi giorni fa, “il miglior capitalista industriale italiano” da Carlo De Benedetti, uno che se ne intende. Il patron di Luxottica – l’esatto contrario del capitalismo “relazionale” – è stato altrettanto apertamente contrastato da Diego Della Valle, un capitalista tricolore un po’ più “relazionale”, ma non meno campione vero di un made in Italy capace di macinare e di giocare soldi veri e propri.
Due businessmen globali, fattisi da soli, che – tuttavia – hanno sempre “parlato italiano”: hanno re-investito parecchio in Italia (quella del Veneto o delle Marche), hanno messo nei posti di comando delle loro aziende manager italiani anche se con esperienza (Andrea Guerra a Luxottica è davvero uno di prima fascia europea). Del Vecchio ha partecipato alla privatizzazione del Credito Italiano e poi a quella di Gs-Autogrill; Della Valle è intervenuto in quelle della Comit e della Bnl, e oggi è presente in Ntv, che sta aprendo la concorrenza privata nell’Alta Velocità.
Sono imprenditori-finanzieri italiani-italiani anche due altri protagonisti dell’ultima svolta al Leone: Francesco Gaetano Caltagirone e Lorenzo Pellicioli. Soprattutto il secondo – che con il maxi-fondo DeA ha il 4,9% del Leone – ha appoggiato Del Vecchio nel chiedere un nuovo capo-azienda esterno.
Tutto, in ogni caso, si potrà dire meno che a Trieste – questa volta – le cose non siano state decise dall’Azienda-Italia; e non dal classico Antoine Berhneim di turno che – ogni volta – ricordava come la stessa italianissima Mediobanca fosse nata sotto il protettorato della finanza internazionale e si fosse portata al controllo delle Generali con l’assenso tacito dei settori ebraici di quel “milieu” finanziario. Sì, perché il Leone nasce e prospera, dal 1831, per iniziativa del capitalismo ebraico del centro-Europa e non diventa mai del tutto italiano: neppure quando – sotto il fascismo – la sede viene trasferita a Roma proprio di fronte al balcone di Palazzo Venezia.
Non lo diventa nemmeno quando – una decina d’anni fa – il Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, sferra un’offensiva “nazionale” per fermare a Trieste l’auto-scalata che Vincenzo Maranghi aveva condotto in Mediobanca per blindarne l’auto-controllo “apolide”. La Bankitalia più italianista aveva mosso banche e Fondazioni contro il raider francese Vincent Bolloré, non lontano da Silvio Berlusconi attraverso Tarak ben Ammar: nomi, questi ultimi, che sono praticamente spariti dalle cronache Generali, dopo averle dominate per anni.
È vero d’altronde che per un decennio il Leone è poi uscito raramente dalla sua tana, che non ha mostrato l’aggressività che ci si sarebbe attesi nella savane dei servizi finanziari. E ha finito pure per dimagrire parecchio in Borsa. Scalzato Maranghi in Mediobanca – pur sostituito da due manager interni come Renato Pagliaro e Alberto Nagel – la “provincia triestina” ha continuato a essere un gigante troppo tranquillo: buono per collocarvi un Cesare Geronzi troppo scalpitante per Piazzetta Cuccia, ma in fondo perfino per il Leone.
È stato così che l’autonomia del management interno – in quanto tale sempre poco italiano – è diventata uno svantaggio competitivo (e dopo quanto è avvenuto a Trieste c’è ora chi pensa che il nodo verrà al pettine presso la stessa Mediobanca, “impiombata” su Fonsai). E, pur litigando, i capitalisti italiani hanno preso davvero possesso delle Generali, e senza più troppe banche o Fondazioni di mezzo, mentre i tre consiglieri indipendenti (espressione dei fondi) si sono spaccati e hanno – neppure troppo curiosamente – appoggiato in maggioranza le ragioni di chi ha voluto rimuovere Giovanni Perissinotto: le stesse ragioni del resto, che pochi giorni fa avevano indotto lo stesso Della Valle a chiedere un “ribaltone” in Rcs.
I grandi investitori italiani (privati, non istituzionali) si muovono quindi con stile “mercatista” e scelgono in Mario Greco un nuovo top manager che avrà fatto pure la sua gavetta alla McKinsey, ma assomiglia come una goccia d’acqua ad Alessandro Profumo: che proprio Greco, alcuni anni fa, sembrava in procinto di sostituire in UniCredit, dopo essere cresciuto nella stessa Ras. Un Ceo, comunque, che ha sempre lavorato nel cuore dell’Europa (Italia, Germania, Svizzera).
Impressionisticamente, queste inedite Generali “italiane” sono un raro dato di cronaca finanziaria che merita di essere seguito con qualche attesa. L’unica azienda italiana che – un tempo – se andava bene era bene per tutto il Paese, è morta da tempo e la sua (non ricca) eredità è stata portata a Detroit. Nel duro riaggiustamento dell’industria finanziaria dopo la grande crisi, le Generali sono state definitivamente portate in Italia. E, in fondo, l’errore letale Perissinotto l’ha compiuto chiamando a Trieste il discusso finanziere ceco Petr Kellner: la soluzione dei problemi – meno che mai per una grande istituzione finanziaria – non può stare nel suo passato remoto.