Non sono molti i gruppi in Italia che partendo dalla scena alternativa hanno conquistato pubblico, successo e critica. Negli ultimi anni forse solo un nome può essere fatto senza possibilità di smentita: i Baustelle.
Forti di un mix originale di influenze sia musicali che letterarie e abbastanza personali nella resa finale delle loro opere i Baustelle sono diventati in poco più di dieci anni una sorta di icona per tutti quelli che pensano che si possa ancora vendere dischi senza per questo diventare banali e superficiali.
In tutta sincerità non credo che i Baustelle siano ancora il gruppo che hanno regalato al panorama musicale italiano album di riferimento quali “Sussidiario illustrato della giovinezza” e “La moda del lento” dove nonostante i mezzi a disposizione fossero molto inferiori si respirava una capacità unica di raccontare in musica il nostro Paese e soprattutto gli esseri umani che ci vivevano (e vivono).
Però non si può che rimanere stupiti dalla capacità di Bianconi e soci di superare l’enorme successo di un disco quale “Amen” (Chiarlie fa surf e Colombo inni di ogni festa scolastica di fine anno e hit radiofoniche per mesi) per produrre qualcosa di diverso, sicuramente più pretenzioso e omogeneo negli intenti.
Fin dall’inizio con L’indaco con un intro di due minuti di solo musica in stile quasi chiesastico si intuisce che il viaggio questa volta necessiterà di più attenzione. In un clima assolutamente cinematografico l’album può essere suddiviso in due categorie contingenti di canzoni: da una parte pezzi più dinamici e rock, dall’altra una propensione quasi cantautorale con risvolti orchestrali.
Di quest’ultima specie il vertice è rappresentato dal brano che da il titolo all’album “I mistici dell’Occidente”: dopo un inizio quasi alla De André prende il soppravvento un arrangiamento orchestrale western epico (morriconiano oserei dire) dove le invettive dell’autore verso un presente misero colgono sicuramente nel segno. E sempre nella stessa direzione può essere visto il brano di chiusura L’ultima notte felice del mondo in cui la voce di Rachele tra campanelli, archi e trombe si adagia lievemente sui ricordi di una notte d’amore indimenticabile.
La canzone della rivoluzione e il primo singolo Gli spietati invece suonano in perfetto stile Baustelliano dove sono immediatamente riconoscibili quelle caratteristiche particolari della loro popolarità: il lirismo che diventa cantabile attraverso versi unici, ma subito memorizzabili senza perdere mai di vista la melodia e il divertimento (anche se dobbiamo ammettere che in questo caso si respira un po’ di manierismo).
Come sempre Bianconi affronta temi a lui cari come il provincialismo decadente italiano (i piccoli gioielli Le rane e Follonica), la rivincita dei pseudo perdenti (San Francesco), lo stereotipo banale della bellezza mercificata (La bambolina).
In questa sede pochi giorni fa si applaudiva al brano Cruciverba dei Virginiana Miller, band per certi versi sempre avvicinata per tematiche e atmosfere ai nostri: quasi in un confronto a distanza i Baustelle rispondono con uno dei pezzi più riusciti come L’estate enigmistica che con ironia e verve ballabile si prenota a singolo estivo.
Ultimo accenno per “Il sottoscritto” brano strappacuore e di rara intensità in cui Bianconi ruba totalmente la scena come un moderno chansonnier: «può cantarti il sottoscritto, vorrei darti tutto, amarti meglio, poter vivere altre vite insieme a te, potrai mai scusarmi? Perchè io ti canto questo e altro».
Con “I mistici dell’occidente” forse i Baustelle non regalano la loro prova migliore risultando un po’ monotoni in alcune scelte stilistiche e eccessivamente ridondanti per gli arrangiamenti ma indubbiamente legittimano ancora una volta il loro ruolo di primi attori nel circuito musicale che conta senza tradire le loro radici e il talento di cui sono indubbiamente dotati.
(Simone Nicastro)