Non dev’essere facile per Christian De Sica, a quasi sessant’anni, fare l’attore e ancora convivere col fantasma ingombrante del padre. D’altronde, quando Vittorio De Sica accettava di interpretare filmetti commerciali per compensare le perdite al gioco nei Casinò di mezza Europa, quel che ne usciva erano alcune delle migliori commedie del dopoguerra, sul tipo di Pane, amore e fantasia o I due marescialli, titoli che nell’immaginario dello spettatore possono benissimo stare alla pari con Miracolo a Milano o La ciociara, solo per citare due delle tante straordinarie regie di De Sica senior.
Christian, invece, inanella successi natalizi al botteghino degni di una macchina da guerra, rendendo felicissimi registi e produttori, ma sotto sotto anche lui vorrebbe essere ricordato per qualcosa di meglio dei cinepanettoni in cui alterna ruoli da fedifrago e da cornuto, o delle stantie pubblicità delle compagnie telefoniche.
Il problema è che quando Christian ha provato a mettersi dietro la macchina da presa, il risultato è stato tutt’altro che esaltante: chi si ricorda di Simpatici e antipatici o di Uomini uomini uomini (ma con un titolo così, che si aspettava?). Eppure Christian ha tante delle doti del padre: una recitazione naturale, una faccia istintivamente simpatica, una bella voce capace di tante intonazioni, una versatilità indiscussa.
È un peccato che i registi non lo valorizzino maggiormente, questa è la prima cosa che si pensa dopo aver visto Il figlio più piccolo, di Pupi Avati. De Sica interpreta Luciano Baietti, un imprenditore truffaldino, manovrato a sua volta da un abile commercialista (un altrettanto bravo Luca Zingaretti).
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Baietti ha un bel viso e un portamento elegante, doti che gli consentono di far bella figura e costruire, con l’ausilio del commercialista, un impero di società destinate al fallimento: tutte le proprietà sono ipotecate, gli amministratori fanno la bella vita ma sono pieni di debiti, anche il matrimonio con una ricca zoticona che si circonda di toy-boys non sembra bastare.
La soluzione escogitata dal commercialista per evitare il fallimento e la galera è intestare tutte le cariche al figlio più piccolo di Baietti, un universitario che vive con la madre (anche lei spogliata di tutto e mollata con i due figli piccoli). La fine (prevedibile e ingloriosa) di Baietti riserva interessanti riflessioni sul personaggio.
Avati riesce a confezionare un film sull’avidità contemporanea, sulla faciloneria dei rapporti, sull’irresponsabilità degli adulti e l’immaturità dei giovani (ben rappresentata dal Nicola Nocella nel ruolo di Baldo). Baietti è un debole, sfrontato, sfruttatore, ma non è cattivo. Un ruolo perfetto per De Sica, che meriterebbe ancora più spazio nel film, specie nei dialoghi con Zingaretti e gli altri voraci amministratori della Holding.
Un film riuscito, che si guarda volentieri e con soddisfazione, nonostante la costante approssimazione tecnica del regista bolognese (anche un profano si accorge con fastidio che gli attori in alcune scene recitano in presa diretta e in altre sono doppiati, e pure male). Ma, evidentemente, Avati la considera una specie di marchio di fabbrica.