Agnes Ochitti ha 25 anni, è avvocato e collabora con AVSI in Uganda. A 14 anni è stata rapita dai ribelli e oggi la bella Uma Turman sta portando al cinema la sua bella storia con la nuova pellicola in lavorazione “Girl Soldier”, film indipendente prodotto dalla Caspian Pictures, nella quale l’attrice veste i panni di Suor Rachele, insegnante di Agnes e protagonista di un’avventura dell’altro mondo.
Nel 1998, Agnes, mentre era studente al St. Mary’s College di Aboke, nel nord dell’Uganda, è stata rapita con altre 139 compagne, tutte tra i 13 e i 16 anni, dai ribelli del Lord’s Resistance Army (LRA). Suor Rachele Fassera, comboniana italiana, insegnante della scuola, con grande coraggio ha seguito i ribelli nel bush implorando la liberazione. Risultato: 109 ragazze sono state liberate, mentre altre 30, tra le quali Agnes che allora aveva 14 anni, trattenute. «Quella notte», dice suor Rachele, «un centinaio di ribelli sono piombati nella scuola. Abbiamo sperato che le porte di ferro e le sbarre alle finestre fossero sufficienti: non è stato così». Quando la suora si è accorta del rapimento, ha seguito i ribelli. Suor Rachele ha affrontato il loro capo. «Mi ha detto che mi avrebbe restituito le mie bambine. Ma non tutte: trenta le avrebbe trattenute. Mi sono inginocchiata davanti a lui: “Lasciale andare e trattieni me”, ho supplicato. Ha rifiutato».
Agnes rimane nel bush per mesi interi. Un ragazzo le insegna a sopportare le botte in silenzio e a svolgere il ruolo di soldato. È costretta a uccidere e compiere atti osceni sotto la minaccia delle armi. «Ci hanno ordinato di prendere dei grossi bastoni e di picchiare a morte la nostra coetanea. L’abbiamo dovuto fare – ricorda Agnes – altrimenti ci avrebbero uccise». Essere addestrate a fare il soldato, andare a piazzare le mine, partecipare ai saccheggi, uccidere le compagne di sventura che si azzardano a tentare la fuga. Oppure essere date in moglie ai comandanti dei ribelli. L’uccisione dell’amica è solo uno dei tanti episodi di crudeltà subìti da Agnes nei mesi di prigionia.
Ma nel mezzo di una battaglia Agnes sente all’improvviso che le sue gambe non la sostengono più. «Non avevo più voglia di correre. Quello era il momento … ho sentito che la vita non aveva significato». Nello stesso istante, Agnes pensa ai volti di sua madre e di suo padre, al dolore che li avrebbe consumati alla notizia della sua morte. L’immagine vivida trasforma la disperazione in decisione e si prepara a fuggire. Al campo dei ribelli Agnes sente che si stanno facendo piani per un viaggio in Sudan. Lei è destinata a raggiungere un capo guerrigliero per diventarne la moglie. Il giorno successivo, mentre i ribelli cercano copertura da un elicottero del governo, Agnes si allontana furtivamente dal gruppo e riesce a fuggire. «Al mio ritorno i miei genitori mi hanno detto che mi volevano bene come prima, ed anche di più – racconta Agnes -. Anche a scuola, le suore, gli insegnanti, le mie compagne, tutti mi volevano bene; con il loro aiuto ho cominciato poco a poco a riprendermi».
Oggi Agnes considera la sua fede in Dio come la fonte maggiore della sua forza. Fintanto che ci saranno dei bambini tenuti prigionieri dall’LRA, in Nord Uganda, un pezzetto del cuore di Agnes rimane là con loro. Agnes è ben determinata a diventare una voce in difesa del suo popolo e per conseguire questo obiettivo ha scelto di studiare Legge, sostenuta da alcuni amici europei. Durante le vacanze, Agnes ha sempre collaborato con AVSI in Uganda, dedicando il proprio impegno a costruire la pace e a migliorare i diritti dell’infanzia.
Nel 2002, Agnes Ochitti ha partecipato al World Summit for Children delle Nazioni Unite di New York, il primo appuntamento mondiale dell’Onu dedicato ai bambini, al quale gli stessi bambini erano invitati a portare la loro difficile testimonianza. Nel 2006 ha partecipato a un seminario internazionale al Parlamento Europeo, sempre con AVSI, sui bambini soldato e sugli aiuti umanitari. È stata la voce più vibrante e commovente.
«È un’esperienza sconvolgente che mi ha cambiato come donna, come religiosa, come missionaria. Il dolore più grande della mia vita l’ho vissuto quel giorno in cui ho dovuto lasciare nelle mani dei ribelli trenta ragazzine che imploravano aiuto». Suor Rachele si interrompe, una lunga pausa per soffocare a fatica l’emozione. «Chiedo perdono perché solo quando siamo state toccate direttamente abbiamo capito il dramma terribile che si consuma sui bambini rapiti in Uganda. Solo allora abbiamo deciso di denunciarlo in ogni sede». Ma sono ferite che non guariscono da sole.
«La nostra presenza in Uganda risale al 1984 – afferma Alberto Piatti, segretario generale di AVSI -. Quando ci trovammo a dover prenderci cura dei bambini soldato, cioè di bambini che sono stati protagonisti di violenze inaudite, fu inizialmente la sensazione di impotenza ad avere il sopravvento. Il compito era apparentemente impossibile, ma non potevamo tirarci indietro. La situazione imponeva un bisogno enorme che non potevamo non condividere. La gente lo chiedeva. I bambini lo chiedevano. Non si poteva stare in nord Uganda senza occuparsi concretamente di questi ragazzi. Abbiamo mobilitato risorse finanziarie, conoscenze e competenze specifiche. Imparando da altre esperienze, abbiamo coinvolto esperti e creato partnership con donatori e con agenzie internazionali e ci siamo proiettati sulla realtà di questo bisogno cercando una risposta che fosse efficace. Si trattava di reinserire nella vita normale bambini che hanno subito ed esercitato violenze enormi nei confronti di familiari e persone della loro comunità». Continua Piatti: «La fatica del lavoro ci ha insegnato che tutte le risorse finanziarie e tecniche messe in campo erano necessarie, ma non sufficienti. Il punto fondamentale è restituire a questi ragazzi la possibilità di recuperare la loro umanità offesa, ma non uccisa. Questa condivisione quotidiana con i ragazzi e le loro spaventose storie ci ha costretto a pronunciare e a praticare la grande parola introdotta dal cristianesimo nella storia: il perdono».
(Elisabetta Ponzone)