In un editoriale apparso ieri su Il Corriere della Sera Alesina e Giavazzi sono entrati nel merito della crisi economica che attraversa gran parte dell’Europa e delle ragioni per cui gli Stati Uniti stanno uscendo prima e meglio dalla crisi. La ragione sarebbe la mancanza di credito; a questo riguardo l’Europa avrebbe sbagliato ricetta “cercando di ridurre debiti e deficit dei conti pubblici dimenticandosi delle banche”, “ma senza credito un’economia non funziona”, notano i due economisti. Gli Stati Uniti si sono prima preoccupati di rendere solidi i bilanci delle banche mettendole in condizione di prestare all’economia, mentre in Europa, complici anche azionisti vecchi ma potenti, come le fondazioni in Italia e in Spagna, non ci sono stati nelle banche gli aumenti di capitali necessari. Inoltre, il contesto regolamentare europeo non rende possibile imporsi su azionisti e interessi locali; anche per questo la legge sull’Unione bancaria europea “è la decisione più importante che l’Unione europea ha preso dall’introduzione dell’euro”. Queste, per sommi capi, sono le tesi di Alesina e Giavazzi.
Il tema è particolarmente importante e complesso perchè va al cuore della crisi economica che si sta vivendo e delle ricette per uscirne. Occorre subito fare una precisazione: accomunare i governi dei Lander tedeschi, fondazioni bancarie italiane e spagnole come colpevoli di bilanci bancari non abbastanza solidi appare un’analisi decisamente rozza. Le banche italiane, anche quelle con un azionariato ricco di fondazioni bancarie, hanno fatto aumenti di capitale di mercato e sul mercato con un contributo pubblico assolutamente marginale con un’abissale differenza rispetto a quelle spagnole sopravvissute grazie a un salvataggio di sistema europeo.
Le analisi sui bilanci bancari, anche quelle di Alesina e Giavazzi, che confrontano l’enorme e variegatissimo insieme delle banche europee con l’enorme e variegatissimo insieme delle banche americane rischiano di essere privi di valore. Il rapporto tra patrimonio e attivi di Intesa Sanpaolo, per esempio, è il triplo di quello di Credit Agricole è superiore del 50% a quello di Bnp Paribas. Ma non è, o non dovrebbe, essere questo il punto.
La diminuizione dei prestiti alle imprese è avvenuta contemporaneamente all’aumento delle sofferenze che pesa sui conti economici diminuendo gli utili e indebolendo il patrimonio e alla crisi economica. Non è perfettamente chiaro se la crisi dia luogo al restringimento del credito attuato come mossa difensiva per preservare la solidità della banca o se sia la conseguenza di un comportamento poco lungimirante ed “egoista” delle banche. Non solo non è chiaro, ma probabilmente la relazione non è, in realtà, scindibile in una causa e in un effetto e probabilmente ha più senso parlare di un circolo vizioso in cui la crisi costringe le banche a restringere il credito che a sua volta aggrava il declino economico.
È ormai nella letteratura che la propensione alla concessione del credito delle banche sia decisiva per una ripresa economica e, probabilmente, il punto più sensibile nel processo di inversione dell’andamento economico negativo. Rimane però senza risposta il tema della reazione, naturale e di buon senso, di manager e funzionari che, non gestendo soldi loro, ma quelli affidati da azionisti, creditori e clienti di fronte a un rallentamento economico di origine “esogena”, decidono di “tagliare” i crediti per preservare i soldi di azionisti, creditori e clienti.
La vera differenza tra Europa e Stati Uniti non è innanzitutto in un diverso rapporto con il sistema bancario ma più in generale nelle “politiche di austerity” che Oltreoceano non sono non solo mai iniziate ma nemmeno mai prese in considerazione. In una fase di deficit in aumento e di debito in esplosione, negli Stati Uniti, il governo americano non ha fatto nulla che assomigliasse lontanamente all’austerity europea, mentre la Fed si lanciava in un programma di politica monetaria espansiva senza precedenti. Contemporaneamente lo spread della terza economia dell’area euro andava a 550 mentre per mesi e mesi si permetteva che il mercato coltivasse ed esaminasse scenari di default e rottura dell’euro. Di fronte ai disastri economici che questa situazione determinava si rispondeva, a livello europeo, con una stretta fiscale che distruggeva la propensione al consumo e si ripercuoteva sull’economia dei paesi periferici ampliando enormentente la crisi.
Oggi, nemmeno di fronte a due anni di crisi drammatica e a una disoccupazione a livelli record, ancora si discute di rispetto di vincoli di bilancio e mentre lo spettro della deflazione diventa sempre più reale ancora si dibatte sull’opportunità di politiche monetarie espansive. Più che nel sistema bancario la differenza di crescita economica tra Europa e Stati Uniti si deve ricercare nella diversità enorme delle risposte tra Stati Uniti ed Europa a guida tedesca. È impensabile e perfino ridicolo il rispetto puntuale al decimo di punto percentuale di vincoli di bilancio in presenza di una crisi finanziaria epica. Certo non si può pensare che nel medio-lungo termine non esistano vincoli di bilancio e che la spesa pubblica inefficiente, fatta anche di migliaia di posti di lavoro inutili o dannosi, senza alcun controllo sull’efficienza, sia la soluzione, ma in questo momento serve probabilmente una scossa all’economia non convenzionale che non può passare da una riforma del sistema bancario, ma da un diverso approccio degli stati e delle banche centrali.
Solo in un contesto di questo tipo si creano le condizioni per fare le riforme giuste necessarie e inevitabili, sul mercato del lavoro, sulla tassazione, sulla burocrazia o sull’istruzione su cui nessuno può sostituire le responsabilità dei singoli paesi.