Un kolossal “con l’anima” – così definito per la magistrale fusione di forma e contenuto, ovvero campi lunghi e lunghissimi dell’ambiente naturale circostante e sfumature narrative della vicenda pubblica/privata di un personaggio “bigger than life” – tra i più amati e di maggior successo nella storia del grande schermo, proprio negli anni in cui quest’ultimo doveva difendersi dalla concorrenza del mezzo televisivo. Un cineasta del Novecento per cui il termine “autore” è ancora oggi accuratamente evitato dalla stragrande maggioranza della critica, dalla quale è al più ricordato come un abilissimo tecnico e un meticoloso artigiano messosi al servizio di un’industria dal carattere fondamentalmente spettacolare. Una colonna sonora ormai proverbiale che rappresenta il richiamo e l’essenza stessi della “meraviglia” legata all’invenzione della settima arte e a cui bastano pochi accordi prima per costruire e poi per schiudere le porte di un altrove dove poco altro riesce a condurci.
«Lo vidi quando diedero la prima a Phoenix in Arizona: io ero al liceo. Non riuscii a capire l’enormità dell’esperienza, non fui capace di assimilarla in quella sola volta. Uscii dal cinema stordito e ammutolito, non capii l’impatto che aveva avuto su di me fino a qualche mese dopo. Parlo di mesi dopo. […] Lo vidi una sola volta e mi annientò. Uscii e comprai la colonna sonora. Per i due mesi successivi non feci altro che ascoltarla. Insieme al disco c’era anche un libro sulle riprese. Divorai ogni immagine per capire come avessero girato il film. Fu un miracolo. […] Quando incontrai David Lean per la prima volta per me fu come incontrare il mio guru, qualcuno che avevo adorato, studiato e sognato di incontrare un giorno. E non mi deluse per niente. La sua intelligenza intimidiva: non riuscii ad essere all’altezza della sua conoscenza della storia, dell’attualità e del cinema. […] Ma poi iniziammo a parlare di cose tipo: “Come togliere le impronte dalla sabbia per la seconda ripresa?” […] Allora mi spiegò perché il film avesse richiesto 285 giorni effettivi di riprese per essere completato e capii perché avesse girato una scena al giorno».
Un incontro nel buio di una sala cinematografica di quelli destinati a suscitare future visioni segnando una vita e una carriera visto che a parlare è un ex liceale statunitense di nome Steven Allan Spielberg (classe 1946), mentre appare ormai quasi superfluo ricordare il titolo dell’opera in questione: Lawrence d’Arabia (Lawrence of Arabia), uno degli epic movies per eccellenza della storia del cinema, la cui primissima edizione aveva una durata di 222 minuti (una versione che obbligava però gli esigenti esercenti alla proiezione di due soli spettacoli al giorno, motivo più che sufficiente da parte della produzione per decidere il taglio di 20 minuti dal montaggio originale in vista della sua distribuzione ufficiale all’inizio del 1963), una pellicola che ha compiuto proprio in questi giorni cinquant’anni avendo iniziato il suo trionfale cammino nelle sale inglesi e americane nel periodo compreso tra il 10 e il 21 dicembre 1962, mentre in Italia non sarebbe arrivata che praticamente un anno dopo, nell’ottobre 1963, con già all’attivo sette Premi Oscar, tra cui quelli per il film e la regia.
Vale la pena ricordare per l’occasione in quali termini ne scrisse Giovanni Grazzini (1925- 2001) il 19 ottobre sulle pagine de “Il Corriere della Sera”: «Th. E. Lawrence […] è un nostro contemporaneo, e in lui vediamo, sublimati, miti che la nostra età ha ereditato dal romanticismo: quelli della libertà, dell’evasione nell’Oriente favoloso, del superuomo. Ma insieme è il simbolo di una generazione che ha assistito al crollo degli ideali perché essi non erano sorretti da un’impalcatura razionale, erano uno slancio mistico e spesso mistificatore, con una forte componente divistica e bastava una crepa nello spirito, una improvvisa deviazione nell’umore, per trasformare un uomo d’azione, un amante del rischio, in un vinto frustrato. […]. Detto in due parole, Lawrence d’Arabia ha molte eleganze formali, molta efficacia visiva, ma non sa raccontarci con sicurezza la figura del protagonista. Per un fenomeno non infrequente, è accaduto che l’ambiguità del personaggio si è riflessa sulla sceneggiatura, che le sue reticenze hanno intorbidito la limpidità del racconto. […] È difficile discutere una interpretazione che, col pretesto della pluralità delle componenti psicologiche del carattere di Lawrence, compie assaggi in varie direzioni, ma non ha il coraggio di proporre una scelta precisa. […] E tuttavia Lawrence d’Arabia è un film da vedere».
Quelle riportate non sono che due tra le reazioni che sono state registrate – vuoi dettate dalla propria passione di adolescente, vuoi inserite nell’ambito di quella che si è scelta come la propria professione – da due distinte individualità messe a confronto con la medesima pellicola nei medesimi primi anni Sessanta: da una parte uno studente delle high schools americane che sarebbe diventato uno dei più grandi storytellers del grande schermo (e, perché no, l’erede a stelle e strisce del britannico sir David Lean) e dall’altra il critico cinematografico di punta del più autorevole quotidiano italiano, destinato a reinventare il modo di fare recensioni nel nostro Paese.
Lasciamo volentieri a quanti vorranno confrontarsi o tornare a confrontarsi con il kolossal leaniano – e non solo per una pura questione di memoria storica o di analisi del gusto del pubblico cinematografici – di scoprire chi dei due ha “letto” nel modo più profetico e autentico i “segni” presenti nelle oltre tre ore di questa pellicola. Non tralasciando anche un altro elemento: un certo Francis Ford Coppola (classe 1939) – imbarcandosi nella ciclopica lavorazione di Apocalypse Now (1979) – ammise di voler cercare di “fare un Lean”, di creare il proprio “Lawrence”. Qualcuno dirà: niente più che corsi e ricorsi della storia. Già, ma molto più lunga di quella del cinema…