Sale l’aria di epurazione da 25 aprile, con tutti i partigiani dell’ultimissima ora, i trasformismi disperati e le speculazioni da Borsa nera, i tribunali del popolo già in via di auto-convocazione e la voglia di esecuzioni sommarie. Venerdì sera – in contemporanea con la mondovisione olimpica da Londra – pochissimi avranno visto La Grande Storia, su Raitre: “Si salvi chi può. I conti con il fascismo”. Era comunque in prima serata: una dettagliata inchiesta-vademecum sulla “rivoluzione incompiuta” dopo il 25 luglio ‘43.
Senza risparmiare il “responsabile” leader del Pci Togliatti, veniva veicolata una curiosa tesi “para-revisionista” sul governo (tecnico) del maresciallo Badoglio: fu presto spazzato via – diceva il parlato sulle immagini – perché la sua compromissione con il regime mussoliniano fu subito confermata dall’esitazione nell’avviare il “piazza pulita” contro il regime. E poco conta – anche a distanza di settant’anni – che lo stesso Alto commissario all’epurazione, il conte repubblicano Carlo Sforza, riconoscesse per primo che “epurare” il fascismo, in concreto, significasse decretare la morte (civile) della larghissima parte degli italiani. Le “purghe” funzionano nelle dittature ideologiche e arcaiche come lo stalinismo negli anni ‘30, non nelle società liberali, per quanto “imperfette” com’è sempre stata l’Italia.
Anche il recentissimo manifesto elettorale “Fermare il declino”, patrocinato da Oscar Giannino, si apre con un’inappellabile “dichiarazione di fallimento” della “classe politica emersa dalla crisi del 1992-94”: l’ultimo “ventennio” della storia patria. L’immancabile qualunquismo “gianniniano” – nell’Italietta di inizio ventunesimo secolo come in quella dell’immediato dopoguerra – si affretta però a sottrarre alla condanna storica “poche eccezioni individuali”.
Sarebbe curioso apprenderne qualcuna per nome: forse l’attuale presidente della Bce, Mario Draghi, il “privatizzatore del Britannia”? L’ex presidente della Fiat e di Confindustria, Luca di Montezemolo? Lo stesso Giannino, giornalista ubiquo nel “ventennio” tra La Voce Repubblicana e Libero; fra il Riformista e Tempi, fra Finanza e Mercati e Radio24? O addirittura il premier Mario Monti, inviato per la prima volta commissario all’Ue dal primo esecutivo Berlusconi? Non sorprende, comunque, che Repubblica abbia subito gettato il rassemblement in formazione nel più ampio cartello-calderone che – negli intenti – dovrebbe dare una base politica propria a Monti, di fatto candidato premier in vista di una larga coalizione post-elettorale. Ma i “cattolici di Todi” (quanti?) voteranno davvero assieme ai “gianniani” (quanti?)? E l’Udc di Pierferdinando Casini si accoderà con le sue truppe e gli interessi finanziari che lo sostengono? E Monti, infine, vorrà davvero essere il leader politico di questo “piccolo compromesso”, quanto “storico” lo si vedrà?
Nel frattempo, il vento dell’epurazione sembra soffiare più forte anche su Mediobanca. La sconfitta riportata contro il gruppo Salini nel “testa a testa” finale in assemblea Impregilo è oggettiva: per di più è costata la presidenza a Fabrizio Palenzona, vicepresidente di UniCredit, uomo forte in Piazzetta Cuccia nel proteggere una sostanziale continuità dopo la morte di Enrico Cuccia, la brusca fuoriuscita di Vincenzo Maranghi e i tentativi di Cesare Geronzi di ridimensionare il management interno (Renato Pagliaro e Alberto Nagel). Questa stessa continuità, tuttavia, ha – altrettanto oggettivamente – trasformato in un “cahier des doléances” quello che per decenni era stato – o almeno sembrato – un forziere pieno di tesori.
Sotto i riflettori, in queste settimane, la metastasi del gruppo Ligresti: per la prima volta nella sua storia, Mediobanca si è ritrovata a subire, non a imporre le sue posizioni multiple (azionista, partecipata, creditrice, advisor). I fari imbarazzanti della Procura sulla faticosissima fusione-salvataggio fra FonSai e Unipol sono solo un riflesso mediatico-giudiziario di problemi strutturali, squisitamente finanziari e imprenditoriali.
Più simbolica, ma non meno rilevante, la crisi delle Generali: la grande compagnia non solo ha costretto per la prima volta la banca d’affari controllante ad accusare minusvalenze sulla partecipazione, ma ha forzato il management Mediobanca a estromettere il loro “fratello di latte” al vertice del Leone. E Giovanni Perissinotto è stato per la prima volta sostituito con un top manager esterno alla tradizione triestina (Mario Greco).
E Telecom? Dopo aver protetto l’Opa di Colannino, nel ’99 e la lunga parentesi di Tronchetti Provera, Mediobanca è ora uno dei custodi del binario morto in cui arrugginisce un’ex Azienda-Paese. Mentre Rcs – di cui Piazzetta Cuccia resta azionista-leader – è sempre meno “media company” e sempre più specchio della guerriglia feudale fra i potentati finanziari del Paese. Metafora ultima di una Mediobanca “in cerca d’autore” è stato il singolare armistizio siglato – nella sala-convegni di Piazzetta Cuccia – con gli stati maggiori delle Fondazioni bancarie italiane.
Un approccio “epurativo” duro e puro difficilmente risparmierebbe Mediobanca, oggi, dal finire appesa in Piazzale Loreto: certamente è questo il punto di vista di una delle firme di punta del manifesto gianniniano, l’ultra-liberista Luigi Zingales. Ma chissà se Giannino – antico figlio della vasta “famiglia allargata” che ha sempre avuto in Via Filodrammatici il suo tempio focolare – “epurerebbe” davvero l’istituto che fu di Enrico Cuccia in nome delle “eccezioni individuali”. Anzi: forse la categoria dell’“eccezione individuale” è stata pensata proprio attorno a Cuccia, caso esemplare di transito indolore e vincente da una ventennio all’altro.
Funzionario della Comit salvata di peso da Mussolini attraverso l’Iri durante la crisi degli anni ‘30, Cuccia lavorò anche agli uffici valutari del sottosegretariato alle Colonie. Ciò non gli impedì – in pieno periodo “epurativo” – di partecipare alla famosa missione italiana del 1944 negli Stati Uniti, guidata dal Egidio Ortona, fino ad allora alto diplomatico mussoliniano a Londra, transitato nei ranghi badogliani.
Mediobanca, fondata nel 1946, nasce in realtà quei mesi fra New York e Washington, assieme a un nuovo reticolo di relazioni economiche “atlantiche” della futura Repubblica: tessute da uomini come Cuccia e Raffaele Mattioli, che nel ventennio “fallito” avevano costruito le loro carriere. Sui libri di storia – sempre transitori – resiste l’idea che quel sistema di banche Iri fu decisivo – anche se non da solo – per la ricostruzione industriale e il boom. E andrebbe sempre ricordato che nei primi anni il presidente del collegio sindacale di Mediobanca era Giordano Dell’Amore, cattolicissimo rettore della Bocconi e poi presidente della Cariplo: mezzo secolo prima che le Fondazioni puntellassero l’azionariato e il management di Mediobanca.