A stare alle code del dibattito pre-pausa-estiva, in autunno è annunciato un intervento legislativo in materia sindacale, sia per quanto riguarda l’esercizio del diritto di sciopero (dove sono scesi in campo con i loro disegni di legge due big come Maurizio Sacconi e Pietro Ichino), sia, in particolare, sulle questioni della rappresentanza, che sono, poi, l’altra faccia della medaglia delle problematiche attinenti alla contrattazione. Non già perché vi siano un’effettiva urgenza e addirittura un’evidente necessità (l’unica situazione “fuori controllo” è quella dei metalmeccanici, ma è inutile sperare di aggiustarla, perché il gruppo dirigente della Fiom non persegue più obiettivi sindacali); semplicemente perché il premier sembra considerare politicamente vantaggioso un blitz normativo nel settore delle relazioni industriali, da realizzare magari in modo estemporaneo e improvvisato, in pochi mesi, facendolo approvare da un Parlamento ormai vassallo dell’esecutivo (peraltro, la sinistra dem vedrebbe con favore un intervento legislativo) e imponendolo a un sindacato ormai inetto e impotente.
Quali potrebbero essere le terapie per un nuovo modello di contrattazione è ormai cosa nota e ribadita più volte (salvo poi ritrovarsi, tutti insieme, davanti al caminetto “a rammendare le solite vecchie calze”). Occorrerebbe potenziare la contrattazione di prossimità, avvalendosi degli strumenti a disposizione, tra cui le agevolazioni contributive e fiscali a favore delle quote di retribuzione, negoziate in azienda, per lo sviluppo della produttività e della qualità del lavoro e le possibilità di deroga consentite dall’applicazione, sempre tramite la contrattazione decentrata, dall’articolo 8 del dl n.138/2011.
Ma, al di là delle volontà politiche, è in grado la struttura produttiva del Paese di avviare questa svolta? Oppure si tratta di una “fuga in avanti”? E come potrebbe mettersi in condizione di esserlo? I dati sull’andamento della contrattazione collettiva di secondo livello, contenuti nell’ultimo Rapporto Istat sulla situazione del Paese, non consentono delle valutazioni orientate all’ottimismo.
La contrattazione decentrata di tipo collettivo (aziendale, territoriale, di gruppo e di stabilimento) coinvolge (le rilevazioni risalgono al 2012) il 21,7% delle imprese (ma solo il 13,4% eroga un premio di risultato). Se si considera anche la contrattazione individuale (la definizione diventa così “contrattazione in senso ampio”) si sale al 31,3%. Persino l’Elemento di garanzia retributiva (Egr), introdotto nel 2009 allo scopo di stimolare la diffusione dei contratti integrativi, viene utilizzato dal 18% delle imprese, le quali chiudono così la partita della contrattazione di secondo livello.
Per quanto riguarda la diffusione delle diverse tipologie di contrattazione integrativa è prevalente quella di tipo aziendale (11,6%) rispetto a quella territoriale (10%). La diffusione della contrattazione decentrata “in senso ampio” aumenta in relazione al crescere della dimensione aziendale: dal 27,6% delle imprese minori – la stragrande maggioranza – al 73,7% di quelle con almeno 500 dipendenti.
Per quanto riguarda i settori si hanno i seguenti andamenti: il 36,5% dell’industria in senso stretto, il 35,6% delle costruzioni, il 30,1% dei servizi orientati al mercato e il 26,4% in quelli sociali e alla persona. Se si considera unicamente la contrattazione di secondo livello di tipo collettivo le diverse performance citate si abbassano di circa dieci punti percentuali. Laddove è operante, la contrattazione aziendale consente incrementi, rispetto alla retribuzione media nazionale, pari al 15%, che sale al 19% nei casi in cui è prevista l’erogazione di un premio di risultato.
Esiste, naturalmente, un rapporto tra la diffusione della contrattazione integrativa, il tasso di sindacalizzazione e la presenza attiva delle strutture sindacali di base. Nel 2012, in media, il tasso di sindacalizzazione nelle imprese con almeno 10 dipendenti dell’industria e dei servizi era pari al 31%, con valori più elevati nell’industria in senso stretto (33,1%) a fronte del 31,5% nei servizi orientati al mercato, del 27,3% in quelli sociali e alla persona e del 23,7% nelle costruzioni. Va da sé che il tasso cresce in parallelo con la dimensione aziendale arrivando al 37% nelle imprese con 500 dipendenti e oltre.
Le Rappresentanze aziendali sono ancora poco diffuse (nel 12,1% delle aziende le Rsu, nell’11,85% le Rsa). Anche in questo caso la presenza aumenta in rapporto alla dimensione dell’impresa: la percentuale è del 7,5% per le Rsu e del 8,4% per le Rsa nelle aziende con 10-49 dipendenti, mentre arriva rispettivamente al 61,5% e al 57,6% in quelle con oltre 500 dipendenti.
In un contesto come quello che emerge dai dati descritti sembra proprio che non si possa rinunciare alla funzione – simile a quella di una “rete a strascico” – svolta dalla contrattazione nazionale, salvo dover rammentare che, anche in questo caso, qualche revisione andrebbe apportata, se solo si pensa agli effetti destabilizzanti determinati dall’applicazione del parametro Ipca in anni di crollo dell’inflazione e del prezzo dei prodotti energetici.
Che fare, allora? È forte e radicata l’impressione che dall’attuale assetto sia difficile uscire e che il cambio di passo in direzione della contrattazione di prossimità rimanga confinato nel novero delle “prediche inutili” se le parti sociali, anche per partecipare da protagoniste a un processo di riforma, non troveranno la forza e il coraggio di destabilizzare l’attuale ordinamento, moltiplicando, a livello settoriale e territoriale, le “clausole d’uscita”, si tratti di ripetere in altre situazioni il modello Fca o di imboccare con decisione percorsi di vera e propria differenziazione, anche retributiva, in quelle aree che stentano a intraprendere una via stabile di crescita. Peraltro, alla luce delle anticipazioni del Rapporto Svimez, il superamento di un assetto contrattuale forzatamente uniforme sarebbe utile anche allo sviluppo delle realtà più svantaggiate. Occorrerà che “mille fiori fioriscano”, perché il giardino delle relazioni industriali possa recuperare vitalità e prospettiva.
Per quanto riguarda, invece, il diritto di sciopero è bene premettere che il conflitto sociale è sempre difficile da gestire. Già ora per l’astensione dal lavoro nei servizi essenziali sono previste delle regole precise e severe, con le relative sanzioni in caso di violazione. Il fatto è che tali regole spesso finiscono nel dimenticatoio una volta che sia finita l’emergenza e tornata una situazione di relativa normalità.
Le proposte di Ichino, come al solito, sono intelligenti e utili. Finora, però, in assenza di una legge attuativa dell’art. 40 Cost. (salvo che per l’astensione nei servizi essenziali), lo sciopero è stato regolato dal “diritto vivente” ovvero dalla giurisprudenza anche di rilievo costituzionale, secondo la quale pure una coalizione spontanea di lavoratori è abilitata a proclamare uno sciopero. Dubito pertanto che la Consulta possa consentire un capovolgimento tanto significativo come quello prefigurato nel disegno di legge di Pietro Ichino, dove, in pratica, un diritto fondamentale come lo sciopero viene “requisito” dalle organizzazioni maggioritarie.
Alla fine, del resto, il problema vero sta tutto in una domanda: che cosa succede, quando, nonostante le regole limitative, gli scioperi selvaggi si fanno lo stesso? In altri momenti e circostanze storiche si è scioperato anche quando astenersi dal lavoro era considerato e punito come un reato. Il mio professore di Diritto del lavoro all’Università diceva sempre che uno sciopero si legittima sulla base della sua riuscita. Erano altri tempi, ma in fondo c’era un fondamento di verità in quelle parole.