Alcune delle principali preoccupazioni per i “mercati” nel 2016 sono arrivate dalla politica e dagli appuntamenti elettorali; nella prima metà dell’anno ha tenuto banco il referendum per l’uscita dalla Gran Bretagna dall’Europa, poi è stato il turno delle presidenziali americane e infine del referendum sulla riforma costituzionale italiana a cui era collegata la sopravvivenza del presidente del consiglio. In tutti e tre i casi si prospettavano tremende conseguenze finanziarie in caso di esiti anti- establishment o “populisti”; previsioni clamorosamente smentite dai fatti in almeno due casi. La borsa americana viaggia sui massimi dopo il “Trump effect” e quella italiana ha messo insieme un rally clamoroso. Anche la borsa inglese ha avuto molto successo dopo la vittoria del “leave”, ma si deve contare l’effetto della svalutazione della sterlina.
Dei tre eventi “politici” del 2016 quello più difficile da interpretare “finanziariamente” è il referendum inglese. Le scuole di pensiero sono due. La prima prevede tragedie per l’Inghilterra che verrà isolata dall’Europa e colpita nella sua industria più florida e cioè nella finanza dato che Londra diventerà “extracomunitaria”. Per la seconda, invece, Londra ha deciso strategicamente di tirarsi fuori da una costruzione, quella europea, molto pericolante riconquistando la propria autonomia e forse perfino diventando un porto sicuro per un continente in subbuglio. Nessuno sa come andrà a finire, anche se è chiaro che la variabile principale è l’Europa, la sua sopravvivenza e soprattutto la capacità di trovare una via per la crescita economica al di fuori dell’austerity e delle sue conseguenze devastanti che oggi colpiscono i Paesi periferici e nel lungo probabilmente tutti.
Ieri il pmi manifatturiero inglese ha fatto segnare il valore massimo degli ultimi due anni e mezzo. Per il momento il settore manifatturiero inglese, sicuramente meno significativo rispetto agli omologhi tedeschi, italiani o francesi, sta incassando i dividendi di una svalutazione a doppia cifra della sterlina; in un tempo nemmeno troppo lontano si potrebbero aggiungere quelli derivanti da una stabilità che non è così certa nel resto d’Europa. Rimane un’incognita sul settore finanziario. In un’intervista di fine dicembre, Jamie Dimon, ad di JP Morgan, diceva di augurarsi di poter mantenere tutte le proprie attività a Londra e, riguardo alla possibilità di spostare lavoratori da Londra, di attendersi comunque un processo lento e in un periodo di anni.
Per il momento non è successo niente e nel breve non dovrebbe succedere molto, in compenso Londra ha in mano un’opzione sulla scommessa di un collasso in Europa. Interessante, a questo proposito, che per Dimon la preoccupazione principale sia che la Brexit “causi la fine dell’Europa nel lungo periodo”. Una visione opposta a chi crede che la Brexit nel lungo periodo causi il tracollo della Gran Bretagna per il tramite della fine del suo status di capitale finanziaria globale. Se l’Inghilterra dimostra di sopravvivere bene o molto meglio senza l’Europa si possono già intravedere le conseguenze politiche e di “immagine”.
A sei mesi dal referendum il settore finanziario di Londra rimane esattamente dove l’avevamo lasciato con una sterlina svalutata e un settore manifatturiero molto in salute. Per il momento va tutto bene. Per il futuro bisogna capire cosa succede in Europa. Al momento non sembra decisamente che si vada verso un’Europa più unita. Lo scenario base, senza immaginare collassi europei che non si possono escludere, potrebbe essere un po’ meno di finanza e un po’ più di manifattura. È una tragedia?