«John Dillinger non andrà a vedere un film di Shirley Temple», taglia corto con un’espressione facciale di pietra accendendosi una sigaretta in mezzo a colleghi e superiori uno degli investigatori che costituiscono la squadra messa insieme per dare la caccia al celebre ricercato a cui Johnny Depp nell’occasione presta le proprie fattezze: sarà proprio sua la mano che premerà il grilletto per la prima volta contro uno dei criminali più ricercati degli anni Trenta sulla Lincoln Avenue all’uscita del Biograph Theater di Chicago, appena terminata la proiezione di Le due strade (Manhattan Melodrama, 1934, W.S. Van Dyke II), con Clark Gable e William Powell nei panni di due amici di infanzia che la vita spinge sui lati opposti della legge, mettendoli infine mortalmente fronte a fronte («Dì, pensi di farmi un favore rinchiudendomi in una topaia per il resto della mia vita? No, grazie! […] Ehi! Su con la vita e riga dritto. Muori come hai vissuto, di punto in bianco! Così si fa, senza strascichi. Vivere così non vuol dire niente!»).
Se un momento e una battuta come questi avessero trovato spazio durante il punto di snodo del film di un qualsiasi altro regista, dalla platea avremmo forse sorriso a denti stretti dell’inguaribile mania cinefila “alla Tarantino” del suo autore per cui la propria attività dietro alla macchina da presa è evidentemente ben più di un semplice mestiere. Ma trattandosi nel caso descritto del pre-finale dell’ultima pellicola di Michael Mann – Nemico pubblico (Public Enemies, 2009), solo la decima di una carriera cinematografica iniziata poco più di trent’anni fa – questa frase segna invece uno scarto nel tono con il quale la vicenda è stata fin lì raccontata, l’inizio di un ulteriore “film nel film”, rappresentando una di quelle “scommesse” narrative che rendono ammirevole e prezioso pressoché l’intero corpus delle opere di questo cineasta statunitense, ormai alla vigilia dei suoi settant’anni, essendo nato a Chicago il 5 febbraio 1943.
Vedere per credere: subito dopo questa sequenza, infatti, quello che nel corso delle due ore precedenti gli spettatori hanno iniziato a conoscere come l’uomo John Dillinger si sofferma tra l’annoiato e l’incuriosito davanti all’ultimo dei numerosi scatti in bianco e nero che, appesi come una funerea teoria lungo delle bacheche a muro, ritraggono il volo di colui che agli occhi di tutti (agenti dell’FBI compresi) è il gangster John Dillinger. Niente di particolarmente strano se non fosse per il fatto che quello dove si sta aggirando come un cane cui hanno sciolto il guinzaglio -immerso nei bagliori della fotografia in digitale di Dante Spinotti – è il Chicago Police Department e la porta dell’ufficio che ha appena varcato riporta sul vetro la scritta “Detective Bureau Dillinger Squad”, ovvero la tana dei cacciatori ai quali la sorniona preda si prende pure la briga di fare visita, non venendo però riconosciuto da nessuno dei presenti.
Ecco l’inizio della fine in un film che “inizia” dalla fine e dove la storia è tutta costruita intorno all’ultimo anno di vita – nell’arco del biennio 1933-1934 – del “nemico pubblico numero 1”, in primis a partire dall’interesse prima di tutto personale nutrito dal cineasta per gli ultimi, fatali passi e istanti camminati e vissuti dal rapinatore lungo una strada della propria città dieci anni prima della sua nascita («Al Biograph Theater ci andavo da bambino con mia nonna. È ancora là al 2433 North di Lincoln Avenue a Chicago, anche se non è più un cinema»): all’uscita della pellicola nelle sale Johnny Depp ha dichiarato che «non ringrazierò mai abbastanza il Dio del cinema per l’esistenza di registi come Michael Mann, che fanno del perfezionismo una ragione di vita artistica. Non ci ha mai fatto sparare un colpo con una pistola finta, abbiamo usato solo armi dell’epoca e registrato il suono in presa diretta». Come ha infatti avuto modo di chiosare lo stesso Mann, «nei miei film uso solo armi autentiche che sparino veramente in modo da far capire che hanno voci differenti, come gli attori».
Lasciandoci alle spalle quello che egli stesso ha definito «il mio film più autobiografico, un incrocio fra un viaggio nel tempo e un ricordo proustiano», cerchiamo allora di ripercorrere nei punti salienti la carriera – una memorabile galleria di fotogrammi, sequenze, parole, suoni, musiche – di questo regista, produttore e sceneggiatore nato come Michael Kenneth Mann e con sangue ucraino nelle vene da parte di padre. Dopo la laurea conseguita all’Università del Wisconsin a Madison (una delle poche progressiste di quel periodo, come Berkeley e la Columbia), si trasferisce a Londra dove dapprima frequenta l’International Film School, venendo folgorato dalla visione del kubrickiano Il dottor Stranamore (1964) («Intelligente, diverso, unico: un film artistico, ma con potenzialità commerciale, senza che sembrasse una contraddizione. Disse, ma fu piuttosto un urlo, alla mia generazione: per avere successo non devi necessariamente fare Sette spose per sette fratelli») e successivamente inizia a lavorare come regista nel settore pubblicitario, secondo un percorso professionale che lo accomuna a futuri colleghi quali Ridley Scott (1937), Adrian Lyne (1941) e Alan Parker (1944).
Il suo primo cortometraggio si intitola Insurrection (1968) e dà voce ai responsabili del movimento del celebre Maggio: nel 1971 alcuni brani di questo lavoro vengono trasmessi dalla rete americana NBC e l’anno successivo Mann decide di rientrare negli Stati Uniti stabilendosi a Los Angeles dove prosegue la propria attività di documentarista, firmando inoltre nel 1975 lo script dei primi quattro episodi della celebre serie Starsky e Hutch. Grazie a La corsa di Jericho (The Jericho Mile, 1979), un dramma carcerario con cui esordisce nel lungometraggio televisivo e del quale cura anche la sceneggiatura, vince un Emmy per la regia e un premio al Festival di Deauville.
All’inizio degli anni Ottanta, forte del buon esito dell’opera precedente, riceve il via libera per girare il primo lungometraggio destinato direttamente alle sale: del 1981 è Strade violente (Thief), la storia di un abilissimo rapinatore di banche (interpretato da James Caan) che intende affrontare l’ultimo colpo della sua carriera e con cui partecipa in concorso alla 34ª edizione del Festival di Cannes, mentre nel 1983 adatta (dal romanzo di F. Paul Wilson) e dirige La fortezza (The Keep), ambientato ai tempi della Seconda guerra mondiale e nel quale alcuni soldati nazisti devono fronteggiare un mostro rinchiuso da secoli all’interno di un misterioso avamposto di un passo dei Monti Carpazi da loro presidiato. Il tutto continuando a produrre serie televisive di grande successo come Miami Vice (1984) e Crime Story (1986).
Proprio nel 1986 esce Munhunter – Frammenti di un omicidio (Manhunter), pellicola tratta dal romanzoRed Dragon di Thomas Harris che conferma il talento del regista e in cui per la prima volta viene portato sul grande schermo il personaggio dello psichiatra antropofago Hannibal Lecter. Datato 1992 è invece un altro celebre adattamento, L’ultimo dei Mohicani (The Last of the Mohicans), interpretato da Daniel Day-Lewis e Madeleine Stowe e approdo alquanto sorprendente per un autore come Mann, che impone il suo travolgente ritmo alle vicende narrate nell’omonimo romanzo di James Fenimore Cooper. Tre anni dopo è la volta di Heat – La sfida (Heat, 1995), una “gara a eliminazione” (nel gergo sportivo del titolo originale) dove i duellanti sono niente di meno che le due leggende viventi del cinema Usa, Al Pacino e Robert De Niro, attorniati per l’occasione da Val Kilmer, Jon Voight, Tom Sizemore, Diane Venora, Ashley Judd e Natalie Portman e in cui il regista riprende il confronto tra poliziotto e rapinatore già affrontato nel suo tv-movie Sei solo, agente Vincent (L.A. Takedown, 1989): nel nome del realismo più assoluto nessuna delle scene è girata in teatro di posa ma tutte in 85 locations reperite direttamente in Los Angeles.
In Insider – Dietro la verità (The Insider, 1999) torna a lavorare con Al Pacino affidandogli il ruolo di Lowell Bergman, il produttore televisivo della CBS che convinse il chimico Jeffrey Wigand (un Russell Crowe invecchiato e appesantito per esigenze di copione) a testimoniare contro i suoi ex datori di lavoro, una compagnia di produzione del tabacco. Il 2001 è l’anno di Alì, affascinante ricapitolazione di dieci anni della parabola umana e sportiva del campione dei pesi massimi Muhammad Alì, per il quale Mann viene indicato per la regia direttamente da Will Smith, suscitando così la reazione di Spike Lee secondo cui solo un artista di colore avrebbe potuto fare giustizia della storia del grande pugile. Nel 2004 il nostro ritorna al noir con lo straordinario “tutto in una notte” di Collateral, una sorta di jam session attoriale lungo le strade della Città degli Angeli assecondata da Jamie Foxx e da un Tom Cruise mai così convincente ed incisivo.
Questa rapida galleria termina (solo per il momento) con quella che a oggi risulta essere la sua penultima pellicola, ovvero con l’arrivo sul grande schermo del film ispirato al suo prodotto televisivo più celebre, quel Miami Vice per la cui versione cinematografica i panni che furono di Don Johnson e Philip Michael Thomas vengono stavolta vestiti da Colin Farrell e Jamie Foxx, quest’ultimo giunto alla sua terza opera consecutiva con Michael Mann, il quale lo scorso settembre ha anche ricoperto il ruolo di Presidente della giuria alla 69ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Un cineasta che ha avviato la sua carriera nella pubblicità e si è fatto le ossa passando dalla televisione ma del quale non ci perderemmo nemmeno un’uscita sul grande schermo…