Sta facendo discutere sui media, oltre che produrre un fiume di commenti su Youtube e i social network, lo spot pubblicitario della Chrysler visto da più di 110 milioni di spettatori durante il Super Bowl, la finalissima del football americano.
Qui in Italia, ciò che sembra aver colpito di più è il “patriottismo” americano, comunicato da un’icona come Bob Dylan, che pervade lo spot e che identifica le automobili con l’America, dove sono nate per essere poi imitate da tutti gli altri. Tutto può essere importato, dice Dylan, e gli americani possono sì bere birra fatta dai tedeschi, portare orologi fatti da svizzeri, o utilizzare cellulari assemblati (si noti, non “fatti”) in Asia, ma “la vostra auto la costruiremo noi ”, perché una cosa non si può importare: “l’orgoglio americano”. E infatti, il vecchio slogan “Importato da Detroit” è qui cambiato in “Importato dall’America”, più precisamente:”America’s Import”.
Da noi la cosa è suonata un po’ strana, dato che solo pochi giorni prima era stata data la notizia del nuovo nome della società, FCA , cioè Fiat Chrysler Automobiles, e la Chrysler è, almeno per ora, di proprietà italiana. Perché quindi questo inno all’America? Per la verità la stessa domanda se la pongono le americane Bloomberg e Forbes, che definisce la FCA “una società olandese con un amministratore delegato italiano”.
Vi sono vari motivi oggettivi a supporto di una tale scelta, a partire dal fatto che il Super Bowl è un evento prettamente americano, seguito soprattutto da americani e per i quali ha un valore, per così dire, “nazionale”. E’ logico, perciò, investire milioni di dollari su uno spot che parla di un’auto americana fabbricata da una società americana, sottolineandone i valori nazionali. Sarebbe molto più azzardato spendere tanti soldi su una Fiat, che negli Stati Uniti non ha avuto finora un grande successo.
Inoltre, la Fiat che facendo fatica un po’ dovunque, particolarmente in Europa e Italia, mentre la Chrysler sta andando bene, soprattutto negli Usa, riuscendo a restituire al governo i soldi del salvataggio. Una ragione in più per investire “americano” nell’americano Super Bowl. Infine, visto lo “American pride” di cui sopra, si è probabilmente ritenuto opportuno sottolineare l’americanità della Chrysler, anzi rilanciarla: “ è vero, ora gli azionisti sono italiani, ma le macchine le sappiamo fare noi e continueremo a farle noi. Viva l’America!” E viene fatto dire da un mito americano come Bob Dylan, che può funzionare, peraltro, anche al di fuori degli Usa.
Insomma, vista con occhi italiani, l’operazione sembra del tutto ragionevole e sembrerebbe dimostrarlo il livello di attenzione raggiunto. Tuttavia, per giudicarne il successo per quanto riguarda i contenuti e sotto il profilo strategico è opportuno guardare alle reazioni negli Stati Uniti.
Qui un primo elemento di controversia è proprio Bob Dylan. Non è la prima volta che il cantante si presta alla comunicazione pubblicitaria, ma molti suoi fan si dichiarano delusi, qualcuno lo accusa perfino di essersi “venduto”, né le connotazioni patriottiche dello spot sembrano ad alcuni sufficienti: buona parte della notorietà in tal senso di Dylan deriva dalla sua opposizione alla guerra in Vietnam, non da questioni industriali o commerciali. C’è poi chi pone in discussione la scelta di Dylan da un punto di vista tecnico, perché rischia di non dire molto ai giovani (il settantaduenne cantante in alcuni commenti sul web è definito uno “zombi”) e, come già visto, di deludere i meno giovani.
Particolare attenzione viene data al cambiamento dello slogan, da Detroit all’America, considerato un tentativo di rendere il marchio più globale, più legato ai valori dell’America rispetto a quelli di una città sinonimo e simbolo di un’industria in crisi. Che sia uno “straniero” a fare questo non è poi così strano per i motivi già elencati.
Il modello pubblicizzato è la Chrysler 200, la stessa dello spot con Eminem del Super Bowl del 2011, ma completamente ridisegnata e potenziata. Come riporta Bloomberg. Marchionne ha dichiarato: “Mi è stato detto che nel 2011 avevo lo spot giusto e il modello sbagliato. Credo sia ragionevole pensare che ora abbiamo sia lo spot giusto che l’auto giusta.”
Rimane il fatto che nel comunicato di Italia non se ne parla, ma l’Italia è assente anche nello spot della Maserati, che si è aggiunto alla Chrysler nella lista delle dieci case automobilistiche presenti al Super Bowl. Il comunicato sulla nuova Ghibli è ben fatto e ha come protagonista Quvenzhane Wallis, una ragazzina di dieci anni già candidata all’Oscar l’anno scorso, che parla dei giganti da cui siamo circondati, che abbiamo dovuto imparare a combattere, noi piccoli ma veloci, che sapevamo che essere capaci era meglio che essere forti. Se sappiamo lavorare duro, se seguiamo il nostro cuore, allora saremo pronti, aspetteremo che si addormentino, troppo grossi per muoversi agilmente, allora usciremo dall’ombra, dall’oscurità ed andremo all’attacco. E la Ghibli irrompe rombando sulla scena, meglio, sulle larghe strade americane. Lo slogan finale: “We are prepared, now we strike”, siamo pronti, ora colpiamo.
Senza dubbio un comunicato aggressivo ed emotivo, anche perché la ragazzina è di colore e una parte del testo e le immagini possono far pensare ad altro tipo di rivendicazioni che non quelle commerciali. Qui i giganti non sono quelli che possono spaventare una ragazzina, sono le grandi case automobilistiche, cresciute tanto da non potersi più muovere, mentre la “piccola” Maserati si preparava aspettando il momento per attaccare, o per sbarcare negli States.
Una strategia che ha di mira, ovviamente, un pubblico selezionato e con disponibilità finanziarie, dato che la nuova Ghibli non ha prezzi stratosferici, si dice, ma parte comunque da 70.000 euro o giù di lì. Uno spot, tuttavia, dove le qualità proprie della macchina vengono affidate solo alle scene finali, anch’esse aggressive, mentre il resto rimane molto americano, l’aspetto “muscoloso” e progressista del sogno americano. Insomma, da un lato un vecchio mito come Dylan, dall’altro un giovane astro come Quvenzhane. Magari, visto che è il centenario della casa di Modena, Marchionne potrebbe regalare la prima Ghibli importata ad Obama.
In conclusione, Marchionne, che qui da noi è accusato di insensibilità all’italianità della Fiat, si produce in un’esaltazione dell’americanità negli Stati Uniti, all’insegna del “business is business”. D’altro canto, se il Made in Italy non ne ha nelle auto il successo che ha in tanti altri campi la colpa non può essere data a Marchionne. Le orecchie dovrebbero fischiare, semmai, in casa Agnelli.