Nel suo ormai celebre discorso parigino del settembre scorso Benedetto XVI ha sottolineato il valore che per i monaci medievali aveva il lavoro nel suo nesso con lo scopo ultimo dell’esistenza monastica (e umana), che è il cercare Dio. È facile ritenere che un simile giudizio sul lavoro debba essere relegato nella lontananza di tempi remoti. Effettivamente le condizioni e la forma stessa del lavoro ha subito, da allora, enormi trasformazioni. Di fronte alle quali la Chiesa ha cercato di porsi, forte del suo messaggio originale.
Un momento molto significativo di questo desiderio di avvicinare il mondo del lavoro è la visita che Paolo VI ha compiuto alle acciaierie di Taranto nel Natale di quarant’anni fa. La ricostruisce Giselda Adornato in un articolo comparso su L’Osservatore Romano del 25 dicembre scorso: «Non è la prima volta che Montini associa il mondo del lavoro al Natale di Cristo, anche se è la prima volta in assoluto che un papa entra in uno stabilimento».
Le acciaierie Italsider di Taranto, inaugurate nel 1965, sono uno dei più grandi complessi siderurgici d’Europa (5.600 operai). Il momento culminante della visita di Paolo VI è l’omelia; seguiamola nella ricostruzione della Adornato. «Incomincia con un richiamo agli interlocutori che ricorda i “tre cerchi” dell’Ecclesiam Suam: “Figli! Fratelli! Amici! Uomini sconosciuti e già da Noi amati come reciprocamente legati – voi a Noi, Noi a voi – da una parentela superiore […] quella che ci fa cristiani, una sola cosa in Cristo! […] e questo specialmente con Noi, proprio perché siamo vostri, come lo è il Papa per tutti, per i cattolici, quali voi siete, specialmente: Padre, Pastore, Maestro, Fratello, Amico! Per ciascuno, per tutti. Così adesso pensateci! Così ascoltateci!”. Ritroviamo la concezione montiniana dell’autorità: paterna, pastorale, di magistero, di espressione della cattolicità. Poi, il discorso cambia registro: “Noi facciamo fatica a parlarvi. Noi avvertiamo la difficoltà a farci capire da voi. O Noi forse non vi comprendiamo abbastanza? Sta il fatto che il discorso è per Noi abbastanza difficile. Ci sembra che tra voi e Noi non ci sia un linguaggio comune. […] Vi dicevamo, salutandovi, che siamo fratelli ed amici: ma è poi vero in realtà? Perché noi tutti avvertiamo questo fatto evidente: il lavoro e la religione, nel nostro mondo moderno, sono due cose separate, staccate, tante volte anche opposte”. Un’osservazione amara, sulla quale Montini ha più volte ampiamente riflettuto anche durante l’episcopato milanese, quando diceva: “San Carlo ha dovuto lottare con la peste, noi, la nostra peste, la troviamo in questa distruzione delle anime nel mondo del lavoro. È il mistero doloroso del nostro tempo”. A Taranto, il pontefice non dà spiegazioni teoriche complesse, ma esprime affermazioni: “Ma questa separazione, questa reciproca incomprensione non ha ragione di essere. Non è questo il momento di spiegarvi perché. […] non esiste, o meglio non deve esistere. Ripeteremo ancora una volta da questo centro siderurgico, che […] quanto più l’opera umana qui si afferma nelle sue dimensioni di […] modernità tanto più merita e reclama che Gesù, l’operaio profeta, […] annunci qui, e di qui al mondo, il suo messaggio di rinnovazione e di speranza”».
Proseguendo nell’analisi dell’omelia di Paolo VI, la Adornato ricorda il passaggio in cui il papa afferma, in un parallelo implicito con l’ora et labora benedettino, che il lavoro: «diventa scoperta del mistero, diventa adorazione, diventa preghiera. Cioè, cioè, cari Lavoratori! voi vedete come quando lavorate in questa officina è, in certo senso, come se foste in Chiesa […]. Voi vedete come lavoro e preghiera hanno una radice comune, anche se espressione diversa. Voi, se siete intelligenti, se siete veri uomini, potete e dovete essere religiosi, qui, nei vostri immensi padiglioni del lavoro terrestre». Scrive la Adornato: «Questo accostamento stretto tra lavoro e preghiera, riproposto anche in altre occasioni, non è visto solo in senso individuale ma come stimolo ad una trasformazione interiore del corpo ecclesiale e del mondo intero, destinata a dare frutti di giustizia, fraternità, libertà, pace».
Dopo aver accennato agli aspetti sociali del lavoro, Paolo VI ricorda alcune questioni fondamentali:
«Il pontefice è particolarmente chiaro nel delineare il fine trascendente di tutto il discorso; non teme di essere scontato e meno che mai rassegnato nel porre due direzioni: la prima è l’amore di carità, che, in questo contesto, diviene vero principio di unità sociale e di pace, per mezzo del quale la società si costituisce come un corpo o un popolo, e non come una massa, sempre percorsa da germi di violenza. La seconda direzione sono le beatitudini evangeliche, che nel discorso all’Italsider assurgono quasi a garanti dei diritti religiosi: “Voi avete altri bisogni e altri diritti; a tutelare i quali la Chiesa molto spesso rimane l’unica vostra avvocata; i bisogni e i diritti dello spirito, […] non siete fra tutti i preferiti del Vangelo, voi se piccoli, voi se poveri, voi se sofferenti, voi se oppressi, voi se assetati di giustizia, voi se capaci di gioia vera e di amore vero? La Chiesa questo pensa e dice di voi e per voi. Ed è chiaro il perché. Perché la Chiesa è la continuazione di Cristo”».
Commenta la Adornato: «La valorizzazione, da parte della Chiesa, del mondo del lavoro deriva quindi dalla valorizzazione spirituale dell’uomo che lavora e dunque dell’uomo tout court. “Non c’è nessuno” aveva detto ai netturbini Paolo VI “che abbia dell’uomo concetto più grande di quello posseduto e insegnato dalla Chiesa”. A Taranto aggiunge: “Dite una cosa: […] non vi sono uomini vivi, uomini sofferenti, uomini bisognosi di dignità, di pace, di amore qui dentro, che non comprendono il pericolo d’essere ridotti ad esseri di una “sola dimensione”, quella di strumenti, […]?”».
A questo punto si colloca il semplice ed eterno annuncio cristiano: «Infine, a chiusura del discorso, la proposta dell’incontro con Cristo, esposta in pochissime righe, perché il messaggio religioso in senso stretto è una proposta essenziale: “Ecco, figli carissimi, perché qua siamo venuti. […] Siamo venuti per lanciare di qui, come uno squillo di tromba risonante nel mondo, il beato annunzio del Natale all’umanità che sale, che studia, che lavora, che fatica, che soffre, che piange e che spera; e l’annuncio è quello degli Angeli di Bethleem: oggi è nato il Salvatore vostro, Cristo Signore”».