12 aprile 1973, una data storica per il cinema italiano: esce nelle sale di tutto il Paese Giovannona Coscialunga Disonorata con Onore, film di Sergio Martino di ampio culto popolare, con l’allora giovane semi-esordiente Edwige Fenech e il sempiterno e bravo Pippo Franco. Fu un trionfo al botteghino: 800 milioni di lire di incasso immediato per un film costatone meno di 100. Per simile proporzione tra costi e ricavi, oltre che per identica “poetica” sulle belle donne, Giovannona è il seguito ideologico del film dell’anno precedente Quel Gran Pezzo dell’Ubalda, Tutta Nuda e Tutta Calda (titolo impensabile solo pochi anni prima), suo gemello sia perché nato dagli stessi genitori – i soggettisti Tito Carpi e Luciano Martino; sia perché, come il primo, ha per principale contenuto tematico le generose grazie della Fenech.
Ironia facile a parte, i due film ricordati segnano un effettivo spartiacque nella cinematografia italiana, nel senso di aver indicato un modus producendi efficacissimo presso il grosso del pubblico, innescando così un effetto a cascata giunto, sotto varie forme, fino ai giorni nostri. Rubricati da un autorevole dizionario critico come “commedia degli equivoci dall’umorismo greve e chiassoso, che perde per strada gli iniziali intenti satirici” il primo, e “titolo leggendario per un caposaldo del softcore nostrano, che trabocca di volgarità e stupidità ad ogni fotogramma” il secondo, sono oggi ricordati da alcuni come due pellicole cult, pietre miliari del nostrano genere della commedia softcore.
Rimane però un fatto inconfutabile: essi aprirono la strada a tantissimo cinema simile, definito senza mezzi termini dallo storico Gian Piero Brunetta, come da altri, “spazzatura”. Si va dal filone Pierino-Alvaro Vitali a quello – contiguo – dell’insegnante “bona” e della dottoressa del distretto militare; dal filone Bombolo-Cannavale-er Monnezza a quello delle vacanze per yuppi anni Ottanta e dei nuovi comici, bravi in tv ma cinematograficamente analfabeti; dal filone delle vacanze per mentecatti anni Novanta giù fino ad arrivare agli odierni cinepanettoni, sottogenere che ricomprende e riqualifica in senso deteriore tutti i predetti filoni.
Giovannona e l’Ubalda possono quindi a buon diritto essere presi come un manifesto, un segno per marcare l’inizio della fine del cinema italiano. La fine di un certo tipo di cinema, quello della tensione critica e creativa volta alla ricerca di stili e contenuti, quello della commedia come genere-specchio di una società, quello che negli anni Sessanta consentiva l’esordio e l’affermazione di nuovi autori, inquieti e sovversivi, a volte scomodi ma intellettualmente vitali. È questo il cinema che viene sostituito quasi per intero, a partire dal decennio Settanta, da qualcos’altro, da un variegato mondo che è ingiusto relegare tutto sotto la bandiera del cinema spazzatura suddetto, ma che nella sua stragrande maggioranza prende le mosse dalla ricerca del facile successo al botteghino.
Giovannona marca anche l’inizio dell’onda lunga produttiva e di scrittura che ha portato a una concezione comico-centrica del nostro cinema, che ha introdotto a forza la moda della messa in scena di taglio televisivo, concausa del grave regresso espressivo e visivo di quegli anni rispetto ai decenni precedenti. Così, i due film ricordati fanno da esemplificazione evidente di cosa sia stato l’impatto di alcune mutate condizioni produttive, principalmente lo spostamento dei “codici etici” sui contenuti.
Dal decennio Settanta si poteva dire e mostrare ciò che alcuni anni prima non era possibile, per l’allargamento della maglie della censura, quindi: parolacce – che fa tanto evoluto – e gnocca esibita come piovesse. Elementi a basso costo che generano alti ricavi, e per questa via hanno distorto l’apparato produttivo togliendo progressivamente spazio al cinema delle idee.
Negli anni Ottanta si è poi aggiunto un fattore aggravante: la vertiginosa crescita della programmazione tv, e della pubblicità, avvenuta in concomitanza con la diffusione nazionale dei network privati. Si è assistito da allora alla progressiva de-alfabetizzazione del pubblico degli audiovisivi in genere, dovuta a una sorta di bombardamento mediatico-visivo proveniente dalla tv.
Sosteneva profeticamente Federico Fellini all’epoca di Ginger e Fred (1986) che “le continue interruzioni dei film trasmessi dalle tv private sono un vero e proprio arbitrio e non soltanto verso un autore e verso un’opera, ma anche verso lo spettatore. Lo si abitua a un linguaggio singhiozzante, balbettante, a sospensioni dell’attività mentale, a tante piccole ischemie dell’attenzione che alla fine faranno dello spettatore un cretino impaziente, incapace di concentrazione, di riflessione, di collegamenti mentali, di previsioni, e anche di quel senso di musicalità, dell’armonia, dell’euritmia che sempre accompagna qualcosa che viene raccontato (…). Lo stravolgimento di qualsiasi sintassi articolata ha come unico risultato quello di creare una sterminata platea di analfabeti”.
Il fulcro del problema è proprio questo: la platea di cretini impazienti e analfabeti cinematografici (di ritorno) è stata generata, con la interessata complicità della tv, proprio a partire da Giovannona e da l’Ubalda; platea la quale è poi diventata anche il target primario di questo cinema. Il circolo vizioso che ha portato in soli due decenni – dalla fine dei Sessanta alla fine degli Ottanta – il cinema italiano dall’essere la prima cinematografia del mondo alla codificazione del cinepanettone è allora completo.
Esso ha agito tramite due leve principali: l’ampliamento dello spazio produttivo e di mercato del cinema facile e il livellamento verso il basso dello stile, contaminato mortalmente da quello della tv. Giovannona si staglia giunonica all’origine di tale processo, infine fiera del risultato raggiunto. Giustamente ne celebriamo il quarantesimo compleanno.