C’è un dato di fondo, incontrovertibile. Viviamo in un mondo nuovo. Ci accorgiamo ora che il giro di boa del millennio non è stata solo un’occasione simbolica per una grande festa, ma è stato il passaggio reale e concreto dal mondo delle tradizioni e delle garanzie, al mondo dell’innovazione e dell’adattamento progressivo. La globalizzazione è diventata una realtà con i suoi benefici commerciali e le sue pericolose esuberanze finanziarie. La rivoluzione tecnologica ha reso le persone sempre più connesse, con la forza di una comunicazione istantanea con moltissimi riflessi pratici sulla stessa vita quotidiana.
È un mondo di potenzialità tutte da scoprire e da affrontare quello in cui ci troviamo a vivere, un mondo tuttavia in cui non si richiede solo spirito di adattamento, ma anche e soprattutto la capacità di cavalcare l’innovazione, di trasformare i rischi in opportunità, di realizzare una distruzione creatrice a saldo positivo.
Nello scenario italiano c’è un grande caso emblematico di questa trasformazione, è il caso della Fiat, la più grande azienda italiana che dopo gli anni di splendore con il miracolo economico si è trovata clinicamente fallita all’inizio del nuovo secolo ed è stata poi rilanciata grazie alla strategia di Sergio Marchionne, culminata con l’acquisizione e poi la fusione con l’americana Chrysler.
La storia degli ultimi cinquant’anni della Fiat costituisce il punto centrale del libro di Giuseppe Sabella (“Da Torino a Roma attacco al sindacato, la crisi dei corpi intermedi e il futuro della rappresentanza”, ed. Guerini e associati, pag. 158, euro 14,50), un libro che parte proprio dalle vicende della casa torinese per mettere in risalto la forza dei cambiamenti da una parte e l’incapacità delle “parti sociali”, con il sindacato in prima linea, di adattarsi in maniera costruttiva ai nuovi scenari.
Sabella, esperto delle problematiche del lavoro e fondatore di Think-in, centro di ricerche su questi temi, illustra con estrema chiarezza la progressiva perdita di potere, di autorevolezza, di capacità progettuale da parte del sindacato. Fermo alla logica della conflittualità, incapace di favorire il coinvolgimento e la partecipazione dei lavoratori nelle aziende, inadeguato nel superare i vecchi metodi degli scioperi, il sindacato si trova ormai nelle sabbie mobili della perdita di consenso da una parte e della progressiva politicizzazione dall’altra.
È peraltro tutto il sistema della rappresentanza che è in crisi. Lo ammette lo stesso presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, nell’introduzione al libro: “Se osserviamo la società che ci circonda e in particolare quella che noi rappresentiamo, certamente possiamo registrare un certo scetticismo e una pulsione a rappresentare da sé i propri bisogni e non delegarli ad altri”. Ma l’associazione degli imprenditori si muove per recuperare uno spazio che ritiene essenziale, come sottolinea Squinzi, “per il processo democratico moderno”.
Se ora Confindustria punta con decisione su “progetti e iniziative innovative e condivise” non era così quando, era solo cinque anni fa, Marchionne e la Fiat uscirono da un’associazione che non voleva superare il vecchio metodo della concertazione e, soprattutto, i vincoli e gli schematismi dei contratti nazionali e dei poteri collegati.
Nel mondo nuovo in cui ci troviamo c’è bisogno di recuperare il valore della cultura industriale insieme allo spirito di competitività, alla possibilità di innovare, alla dimensione della crescita. È allora necessario rifondare il rapporto tra scuola e lavoro, ridare spazio alla contrattazione di base, rimettere in gioco le regole del mercato di fronte alle tentazioni stataliste, talvolta addirittura autarchiche.
Il sindacato sembra comunque incapace di attuare una metamorfosi che lo porti a riconquistare spazi e credibilità. Ed è un peccato. Anche perché a livello locale ci sono mille esempi di apertura e collaborazione tra lavoratori e aziende. Ma per le grandi confederazioni l’immagine più realistica è quella del tramonto. In gran parte per colpa loro.