Lo so, tra poco più di un mese tutti parleranno di lui, dato che si avvicina il ventennale di quel fatidico primo maggio scolpito nelle menti di chi l’ha vissuto come fosse ieri. E proprio per “anticipare i tempi” che colgo al volo il doodle di Google e ne parlo oggi, 21 marzo 2014, primo giorno di primavera, in cui Ayrton Senna avrebbe compiuto 54 anni. Chissà, forse il più grande di tutti è stato Michael Schumacher, il più vincente. O forse il Maestro Fangio, colui che ha cambiato il concetto stesso di pilota da corsa. O forse Alain Prost, il “Professore”. O forse il leggendario Graham Hill o il primo vero moderno Jackie Stewart o forse Niki Lauda. Forse. Ma che importa, in fondo: la verità è che nessun pilota ha catalizzato, esaltato, unito e diviso milioni di appassionati come Ayrton Senna da Silva, nessuno ha mai mostrato un talento puro, innato, monumentale, come il suo se si eccettua probabilmente Jim Clark. E pochi, forse nessuno, ha mai incarnato come lui l’identità di un popolo, quello brasiliano, che nelle sue imprese si identificava totalmente traendo le forze per superare le quotidiane difficoltà. Esponente di una Formula 1 fatta ancora – e furono gli ultimi anni – non solo di grandi piloti, di professionisti, ma di uomini eccezionali, dentro e fuori dall’abitacolo. E Ayrton era un personaggio straordinario, fuori dal comune, dallo sguardo fiero e malinconico, ricco di contraddizioni come solo chi è veramente uomo, donnaiolo ed esuberante ma profondamente ed autenticamente religioso, tanto da portare sempre con sé la Bibbia, leggere un passo del Vangelo prima di ogni corsa e dichiarare apertamente la sua fede, fino sulla tomba dove aveva lasciato detto di voler scritto: “Nada pode me separar do amor de Deus” – “niente mi può separare dall’amore di Dio”. Ayrton proveniva da una famiglia benestante e iniziò a tredici anni con i kart, categoria nella quale fra il 1973 e il 1980 raccolse un grandissimo numero di vittorie e titoli, comprese due corone mondiali. Il ciclone Ayrton si abbatté sull’automobilismo all’improvviso, nel giro di tre anni. Nel 1981 passò in Formula Ford vincendo 12 delle 19 gare in programma nel Campionato inglese e, ovviamente, vincendo il titolo. L’anno seguente in F. Ford 2000 disputò il campionato britannico e quello europeo: li vinse entrambi con 21 vittorie su 29 gare totali. A fine stagione debuttò nel Campionato Inglese di nell’ultima prova del calendario. Gli diedero in mano una macchina che non aveva mai provato. Esito: pole position, vittoria e giro più veloce. L’anno seguente stravinse lo stesso campionato e dominò il GP internazionale di Macao, considerato il Campionato del Mondo di F.3 cui partecipano – tuttora – tutti i migliori piloti di categoria. Fu dopo questa incredibile sequenza di successi che Ayrton Senna irruppe nel mondo della Formula Uno, nel 1984, seppur con la modesta Toleman. La storia dell’automobilismo cambiò letteralmente il 3 giugno, durante il GP di Monaco: sotto un diluvio torrenziale, Ayrton compì una straordinaria rimonta a colpi di giri veloci fino ad arrivare ad un passo da Alain Prost, al comando della corsa ma di sei secondi al giro più lento del brasiliano. Quando stava per superarlo, il direttore di corsa – l’ex-pilota Jacky Ickx – interruppe la gara, salvando Prost e facendo infuriare il giovane, irriverente Senna. Fu in quel momento che nacque il mito di Senna “mago della pioggia” e forse anche la accesissima rivalità con Prost che segnò tutta la carriera di Ayrton, fino alla sua tragica fine. Una rivalità come raramente se ne videro nel mondo dello sport e che si spense solo nello storico abbraccio sul podio di Adelaide nel 1993. Da quel pomeriggio di Montecarlo per descrivere la vita di Ayrton non basterebbero le poche righe qui concesse. Perciò, più che le vittorie, i titoli mondiali, le pole position a raffica parlano gli incredibili aneddoti che ne disegnano la figura: come la prima straordinaria vittoria sotto la pioggia all’Estoril ’85 con la Lotus; come i due incredibili epiloghi dei campionati 1989 e 1990 finiti con gli incidenti di Suzuka capitati, o più probabilmente voluti, con Prost e l’infinita polemica con il presidente della FIA Jean-Marie Balestre, francese, e per questo accusato da Ayrton di favorire l’avversario a suo danno; come l’incredibile, fantascientifica vittoria nel GP del Brasile 1991 con il cambio bloccato in sesta marcia per metà corsa, al termine della quale Ayrton sul podio non riuscì nemmeno a sollevare la coppa per la stanchezza e per le braccia attanagliate dai crampi; come in Belgio nel 1992 quando non esitò a fermare la macchina in mezzo alla pista per soccorrere Eric Comas, vittima di un grave incidente; fino al Gran Premio di Australia ’93, ultimo della carriera di Prost che si laureò quel giorno Campione del Mondo per la quarta volta e che vide quell’incredibile gesto di riappacificazione sul podio che riempì di lacrime gli occhi del freddo “Professore” e legò i due in un definitivo destino comune. Per il 1994 Ayrton aveva quasi “preteso” di avere la macchina di Prost, l’imbattibile Williams-Renault contro la quale la sua McLaren non aveva potuto nulla l’anno precedente. Quella macchina però non era la stessa – i nuovi regolamenti avevano infatti proibito i dispositivi elettronici come le “sospensioni attive” punto di forza della Williams – e non sembrava immediatamente adatta a lui; così, nonostante le solite due poles, Ayrton chiuse le prime due gare del Mondiale senza punti staccato di venti lunghezze dal suo nuovo e giovane rivale, Michael Schumacher. E poi si arrivò ad Imola, una corsa già segnata nelle prove del venerdì da un grave incidente occorso al suo pupillo Rubens Barrichello alla Variante Bassa e poi dalla tragica morte di Roland Ratzenberger che si schiantò con la sua Simtek alla Rivazza sabato 30 aprile.
Ayrton rimase molto scosso da quell’incidente: pianse e seguì in ospedale sia l’amico brasiliano che l’ultimo arrivato del circus che praticamente non conosceva; si batté per far rinviare la corsa, ma senza successo; parlò con la fidanzata Adriana Galisteu di ritirarsi, ma partì comunque, al solito, dalla pole position, infilando nell’abitacolo una bandiera austriaca che avrebbe sventolato in caso di vittoria in memoria di Ratzenberger. Alle 14 e 17, settimo giro della corsa, secondo dopo l’uscita della safety car in pista in seguito ad un incidente fra J.J. Lehto e Pedro Lamy, Ayrton per cause ancora non precisate – ma probabilmente legate al cedimento del piantone dello sterzo modificato nella notte per migliorare la visibilità della strumentazione – si schiantò a 280 Km/h sul muro esterno della curva del Tamburello. La sospensione anteriore destra spezzatasi gli sfondò il casco colpendogli la tempia destra. Non subì altri traumi rilevanti – come accertò successivamente l’autopsia – ma solo quell’unica ferita mortale. La bandiera austriaca fu ritrovata accanto a lui, intrisa di sangue. Spirò alle 18 e 40, all’ospedale di Bologna senza riprendere conoscenza e alimentando così ancora di più il suo incredibile mito, più vivo che mai, dopo quasi vent’anni. Il Brasile proclamò tre giorni di lutto nazionale e il suo funerale fu un evento che coinvolse milioni di brasiliani. Le partite di calcio in programma quel giorno si fermarono e i giocatori si inginocchiarono in campo. La Nazionale Brasiliana vinse quell’anno il Mondiale di Calcio e lo dedicò al campione: era quel quarto titolo che Ayrton inseguiva e che non avrebbe più potuto raggiungere.