Parente della politica e della letteratura più che di chimica, fisica o medicina, l’economia offre sempre alla Banca di Svezia qualche grado di libertà nell’assegnare il Nobel “fratello minore” dei cinque voluti dal fondatore. Il Nobel per l’Economia 2016 – istituito nel 1969 “in memoria di Alfred Nobel” ha premiato ieri il britannico Oliver Hart e il finlandese Bengt Holmstrom, entrambi a lungo ospiti dei grandi atenei statunitensi (il primo ad Harvard, il secondo al Mit, le università rivali di Boston).
“Per il loro contributo alla teoria dei contratti”, dice la succinta motivazione. I media hanno già spiegato che ambedue gli economisti si sono occupati soprattutto di finanza e in particolare di quei particolari contratti che legano i top manager alle loro corporation. E’ ciò che nella vulgata giornalistica passa sotto le etichette di “stock option” o “bonus”: i superstipendi a sei o sette zeri annui i euro o dollari, due o trecento volte superiori a quelli del dipendente alla base della piramide aziendale. C’è dunque di che prevedere che anche questo award cadrà nel colore giornalistico oppure sotto le ripetute accuse ai “sacerdoti del Nobel” di assegnare il premio con criteri più attenti all’attualità mediatica che ai reali valori culturali in campo.
Non si sono ancora spente le polemiche per il Nobel per la Pace dato “in tempo reale” al presidente della Colombia, José Manuel Santos per lo storico armistizio con i guerriglieri del Farc: bocciato tuttavia in tempo altrettanto reale da un referendum nazionale. Se l’albo d’oro del Nobel per la Pace è lastricato di assegnazioni imbarazzanti (non ultima quella “a prescindere” all’allora neo-eletto presidente degli Usa Barack Obama), sarà curioso vedere se dopodomani l’ultimo Nobel 2016 in palio, quello per la letteratura, sarà deciso con standard meno iedologico-geopolitici rispetto agli ultimi anni (a cominciare dall’ultimo, alla saggista bielorusso-ucraina Svetlana Alexievich: non certo Pasternak né Solgenytsin).
Ma torniamo af Hart & Holmstrom: studiosi, a detta dei pochi che ne conoscono le ricerche, certamente degni di spartirsi gli 800mila dollari del premio. Ma ciò che ha subito reso mediatico l’annuncio è stato il fatto che – fin dagli anni ’80 – hanno studiato ciò che oggi resta un nervo scoperto del capitalismo finanziario. Ma nel commenti a caldo ha pesato molto anche la sorpresa: i due super-favoriti erano due economisti “istituzionali” – “del principe” – come il capo-economista del Fondo monetario internazionale, il francese Olivier Blanchard; e il suo gemello nella gemella World Bank, lo statunitense Paul Romer (addirittura congratulato da un comunicato della Banca Mondiale uscito nei giorni scorsi per sbaglio).
E’ facile – divertente, intrigante – pensare che a Stoccolma si siano rabbuiati: e abbiano depennato da un giorno all’altro la candidatura di Romer, successore alla World Bank di Joseph Stieglitz, premiato nel 2001 (peraltro un’assegnazione controversa: a un ideologo, più che a un vero teorico della crescita sostenibile). E per non rischiare incidenti diplomatici sarebbe caduta anche l’ipotesi Blanchard.
Con il risultato finale di un Nobel per l’Economia interpretabile come “segnale culturale”: a otto anni dal crack di Wall Street i nodi intellettuali dell’economia globale ( le sue “basi contrattuali”, come sono anche i derivati) rimangono irrisolti quanto quelli reali. Anzi: proprio Fmi e Banca Mondiale – le istituzioni concepite a Bretton Woods sul finire della Seconda Guerra Mondiale per assicurare “equilibri razionali” all’economia – non stanno fornendo risposte adeguate. Meglio quindi premiare due analisti matematici oggettivamente problematici sui “bonus” piuttosto che che altri “economisti di regime”. Lo fu certamente il Nobel 2008, un mese dopo il fallimento di Lehman Brothers: l’economista-giornalista Paul Krugman è ad oggi forse il premiato meno prestigioso, il cui unico merito è apparso – e continua ad apparire – quello di rivolgere critiche politicamente corrette a Wall Street (all’Fmi, alle banche centrali, ai G-20 etc).
Purtroppo la Grande Crisi sembra aver spazzato via anche i Nobel assegnati – soprattutto nelle prime edizioni – a pensatori “forti”: come il kennedyano Paul Samuelson o il leader della Scuola di Chicago, Milton Friedman; oppure ancora Frederic von Hayek, ultimo esponente della Scuola Austriaca, della prima metà del ‘900. Un mondo in cui, in fondo, si poteva festeggiare anche un Nobel dato all’indiano Amartya Sen: un filosofo e un poeta, più che un economista. Ma non un nome (o non-nome) da dare im pasto ai media.