La geofinanza sta lavorando alacremente in questi giorni e penso che a Davos si parlerà molto di Ucraina. Non tanto per l’economia di quel Paese, ma perché quanto sta accadendo per le strade di Kiev è assolutamente strumentale a un’altra logica: eliminare Vladimir Putin politicamente. Tranquilli, non servono moti di piazza o attentati: basta far scendere il prezzo del petrolio a 60 dollari al barile. Non lo dico io, lo ha detto chiaro e tondo alla stampa anglosassone William Browder della Hermitage Capital Management, non esattamente una onlus trattandosi di un hedge fund e sulla cui testa pende una mandato di cattura internazionale per una condanna comminatagli proprio da un tribunale russo che quasi nessuno Stato europeo però riconosce. Ecco cosa ha dichiarato Browder, parlando con giornalisti inglesi a Davos: «Tutto ciò che serve è un calo del prezzo del barile a 60 dollari e Putin sarà eliminato nell’arco di un anno. Sareste sorpresi di scoprire quanto è fragile il sistema».
In effetti, il prezzo per il break-even fiscale necessario a Mosca per il bilanciare il budget statale è di 117 dollari al barile, quindi un protratto calo costringerebbe il governo a mettere mano sempre di più ai fondi di riserve e potrebbe innescare fughe di capitali. E nemmeno le riserve estere russe, qualcosa come 499 miliardi di dollari, potrebbero rivelarsi una difesa: «Lo abbiamo già visto nel 2008, quando tutto andò a rotoli in pochi mesi, nonostante la Russia avesse le terze riserve al mondo. Nessuno si aspettava che succedesse ma è successo». E, come vedremo dopo, un calo netto del prezzo del petrolio non è affatto impossibile, anche attorno a quota 60 dollari. Sia Deutsche Bank che Bank of America parlano chiaramente di un crollo della valutazione dovuto alla fine o all’ammorbidimento delle sanzioni contro l’Iran e al riattivarsi a regime delle esportazioni dalla Libia. Inoltre, gli Stati Uniti quest’anno aggiungeranno all’offerta globale un milione di barili in più al giorno e i sauditi potrebbero scegliere di non stabilizzare il mercato tagliando l’output, lasciando deliberatamente far scendere il prezzo del petrolio sotto il costo marginale di produzione di shale, la nuova frontiera degli idrocarburi.
A questo, poi, va unito l’effetto “taper” della Fed che sta già portando a una rotazione di capitali dai cosiddetti Brics verso altri mercati ritenuti più sicuri e con ogni probabilità a fine mese proprio la Federal Reserve annuncerà un nuovo taglio agli acquisti, scendendo a 65 miliardi al mese e mandando uno scossone, l’ennesimo, proprio ai mercati emergenti. Per Browder, «non c’è affatto un sostegno ideologico al regime di Putin, il quale sta cercando di creare una nuova forma di conservatorismo ideologico con i suoi attacchi contro i gay. Ma appena andrà in difficoltà, i suoi alleati lo abbandoneranno».
Insomma, qualcuno potrebbe essere tentato da questa prospettiva. Tanto più che le equities dei mercati emergenti ora sono a un livello di prezzo interessante ma non ancora a sufficienza per conoscere gli inflows degli scorsi anni, tanto più che paesi come Brasile ed Egitto già scontano pesanti fughe di capitali e investimenti esteri. E se parte una logica simile, il rischio di reazione a catena è dietro l’angolo. Ma torniamo al petrolio, il quale è l’unica commodities a non aver patito il crollo dei prezzi negli ultimi due anni. Anzi, stando a un nuovo report di Deutsche Bank, «è la commodity più prezzata al rialzo del mondo». La coincidenza dei tre fattori già accennati – ultra-offerta Usa, Iran scongelato e Libia al massimo di potenziale – riporteranno i livelli di capacità dell’Opec al 2009, tanto più che gli Usa supereranno l’Arabia Saudita nel 2016 come primo produttore globale, più della metà dell’offerta non Opec al mondo quest’anno.
Il Dipartimento energetico statunitense ha reso noto che le importazioni di petrolio scenderanno a 5,5 milioni di barili al giorno entro il prossimo anno, la metà di quanto importato solo dieci anni fa. Uno shock a livello di equilibri globali per gli 89 milioni di barili trattati al mondo ogni giorno. Per Julian Jessop della Capital Economics, le attuali sanzioni contro l’Iran hanno ridotto l’offerta di circa 1-1,5 milioni di barili al giorno, ma in qualche modo la cifra reale potrebbe toccare oltre i 2 milioni, riserve che non appena le sanzioni verranno ammorbidite torneranno disponibili sul mercato. La Libia, poi, ha visto triplicare l’output di petrolio dalla scorsa estate a oggi, raggiungendo i 600mila barili al giorno grazie all’operativa piena dei giacimenti di El Sharara. A conti fatti, la Libia quest’anno potrebbe aggiungere all’offerta globale un milione di barili al giorno, mentre Bank of America stima che un ritorno sul mercato di Libia e Iran potrebbe portare a 3 milioni di barili al giorno in più. Se l’Opec non interverrà e in fretta con un offsetting di questa offerta extra, soltanto un terzo di questo “supply shock” potrebbe far crollare di colpo il prezzo del petrolio di 20 dollari al barile.
C’è poi la variabile Iraq, la cui offerta sul mercato è crollata a 2 milioni di barili al giorno dopo gli attacchi di Al Qaeda alla pipeline di Kirkuk-Ceyhan e ovviamente è fantascientifico pensare, come ha fatto lo scorso anno l’International Energy Agency, che entro la fine di questa decade il Paese diventi una super-potenza petrolifera da 6 milioni di barili al giorno, ma se si dovessero calmare le tensioni un rimbalzo e anche rapido dell’output non è affatto da escludere. Tanto che Hsbc ritiene che, nonostante il conflitto in atto, la produzione irachena e curda potrebbe salire a 3,5 milioni di barili al giorno entro la fine di quest’anno. Qualche ottimista ritiene che la ripresa globale sia abbastanza forte da incorporare gli aumenti di produttività ma altri, come Simon Ward della Henderson Global Investors, pensano l’esatto contrario, ovvero che ci sia già stato un roll-over dell’offerta globale lo scorso novembre e che ora ci siano segnali tutt’altro che positivi. Basti vedere il livello di creazione di massa monetaria M1 dei Paesi del G7 e in quelli emergenti dell’E7, rallentata al 2,3% dal 3,7% dello scorso maggio, un chiaro indicatore che normalmente anticipa i fenomeni macro di sei mesi: insomma, i rischi a livello globale stanno salendo, visto che il ciclo sembra già maturo per aver raggiunto gli standard storici.
La crescita di massa monetaria M3 negli Usa è rallentata al 4,6% già prima che la Fed annunciasse il “taper” delle misure di stimolo, mentre nell’eurozona è stata praticamente a zero negli ultimi sei mesi. C’è la Cina poi, i cui ultimi dati parlano di creazione di massa monetaria M2 scesa al 13,6% in dicembre dal 14,2% di novembre, a causa della contrazione del credito imposta dalle autorità per cercare di sgonfiare la bolla del sistema bancario ombra. E la creazione di moneta in Cina ha implicazioni a livello globale, visto che è pari al 200% del Pil, una volta e mezzo il livello in termini assoluti degli Usa: e la deflazione sta già mettendo un piede in casa. La Cina, d’altronde, sta gestendo uno stock di 24 triliardi di dollari di credito, una massa incontrollabile e gli ultimi dati parlano di investimenti fissi per 5 triliardi dollari nel 2013, più di Usa e Ue insieme. Questo impone ulteriore capacità in eccesso, quindi impulsi deflazionari in tutto il mondo. Un repentino calo del prezzo del petrolio, quindi, potrebbe non essere affatto benigno, poiché asimmetrico: i primi a pagare il conto in maniera salata sarebbero Bahrein, Nigeria e Algeria con un break-even fiscale a 120 dollari al barile, poi proprio la Russia di Putin con i suoi 117 dollari e il Venezuela con quota 110 dollari al barile.
Gli altri, pagheranno invece con la deflazione importata e che già comincia a palesarsi, come ci dimostra il primo grafico. Europa in testa. Ma eliminare Putin e Maduro grazie al petrolio e non alle armi potrebbe essere un prezzo che qualcuno ritiene persino conveniente. E che l’assalto al Venezuela sia già in atto, non ce lo deve dire il prezzo del petrolio. Guardate il secondo grafico, è l’andamento della Borsa di Caracas da inizio anno, dopo essere stata la meglio performante al mondo nel 2013: praticamente Wall Street fa ridere.
In compenso, la Empresa Polar SA, la più grande impresa privata del Paese, in una mail ha reso noto che i fornitori di cibo ed equipaggiamenti stranieri hanno chiuso le linee di credito a causa dei ritardi del governo nel fornire all’azienda dollari al tasso ufficiale, ritardi che non si registravano dal 2003 quando Chavez impose i controlli sulla valuta. Insomma, tra poco non ci sarà da mangiare ma la Borsa va come un treno: prima di crollare ma chi di dovere sarà sceso dalla giostra un istante prima, facendo pagare il conto al parco buoi e al popolo venezuelano. Attenti a come leggerete la realtà in questi prossimi pericolosi mesi, attenti a schierarvi troppo in fretta con cause che sembrano troppo giuste per non essere sposate. Sicuramente chi sta in piazza ha ragioni nobili, non sempre però si può dire lo stesso di chi lo spinge in un modo o nell’altro a manifestare. La realtà non è quasi mai quello che sembra.