Finita la presentazione del piano industriale di Mediaset subito sono comparsi rumour secondo cui Vivendi starebbe valutando la possibilità di vendere la quota in Telecom Italia per “concentrarsi” su Mediaset. Questi rumour non sono destinati a finire nonostante siano immediatamente apparse dichiarazioni di “portavoce” non meglio specificati che ribadivano la volontà di Vivendi di rimanere azionista di Telecom Italia; smentite che non legano particolarmente né da un punto vista sostanziale, né tanto meno da quello legale. Nella confusione che si è generata con rumour e contro-rumour ci sembra che ci siano punti fermi che difficilmente possono essere ignorati.
Il primo punto fermo è che oggi Vivendi è nella peggiore delle situazioni possibili: ha speso più di un miliardo di euro per una quota che non solo non si può vendere sul mercato, ma che non garantisce nemmeno un briciolo di controllo effettivo su Mediaset. Nella situazione attuale l’operazione di Vivendi non ha nessun senso industriale, finanziario o economico. Vivendi vorrà sicuramente che la situazione si evolva radicalmente in una direzione che le consenta un controllo sulla società e una migliore presa sui suoi destini economici. Questo può avvenire o con un’alleanza e uno scambio azionario con Berlusconi o con un’opa lanciata su Mediaset. Non ci sono altre vie che possano soddisfare Vivendi.
In entrambi i casi, Vivendi incorrerebbe nel problema del doppio controllo su Mediaset e su Telecom Italia e dovrebbe fare una scelta. Visto il dna di Vivendi non ci sono molti dubbi sul fatto che la scelta ricadrà su Mediaset. Vivendi tornerà alla carica sulla società media.
Dall’altra parte c’è l’azionista storico nonché fondatore di Mediaset e cioè Fininvest e Silvio Berlusconi che immaginiamo non possa ignorare la situazione di cui sopra. La situazione attuale non è intanto il contesto ideale per la conduzione di Mediaset con il management che si deve occupare di quello che è palesemente un tentativo di scalata e con gli effetti su tutta l’organizzazione di una battaglia che ha ricadute giornaliere sulla stampa.
Fininvest può legittimamente rifiutare un accordo con Vivendi, ma si espone al rischio che Vivendi lanci un’opa. In questo caso sarebbe Fininvest a essere costretta alla scelta di mettere sul tavolo circa tre miliardi di euro per una società che fino a tre mesi fa valeva la metà, in un contesto economico complicato in un settore ancora più complicato e incerto. Tre miliardi che sarebbero spesi per avere lo stesso oggetto di prima, nella stessa, complicata, situazione di mercato di prima con una posizione competitiva che rimane sfidante.
Immaginare uno scenario in cui Vivendi decida di uscire da una situazione che al momento è la peggiore possibile non è fanta-finanza per una lunghissima lista di ragioni. La prima è che Vivendi non può non aver messo in conto che sarebbe finita in questa situazione intermedia e sapeva fin dal momento dell’accumulo delle azioni quali sarebbero state le alternative. La stile di governance di Vivendi è stato aspramente criticato sui principali organi di informazione economica internazionale e le stesse modalità con cui si è mossa negli ultimi sei mesi segnalano la mancanza di timori riverenziali; Mediaset è pur sempre la prima società italiana fondata da un politico che è stato al potere per tanto tempo. A parti inverse, con una società italiana a fare le stesse mosse sulla prima emittente televisiva privata francese, non si sarebbe neanche arrivati a concepire una simile discussione. Sappiamo però che gli italiani non sono particolarmente gelosi né dei loro gioielli, né del loro apparato industriale, né della loro indipendenza. Per uscire da questa situazione, o con un’opa o con un’alleanza che consenta di condividere il controllo, Vivendi deve vendere Telecom Italia per evitare guai con l’antitrust.
Queste premesse rischiano di produrre un esito in cui Mediaset è controllata da Vivendi e in cui la partecipazione di controllo di Telecom Italia è messa in vendita da una società francese che sa già, come tutti, che un’altra società francese è disposta a comprare. Se il sistema Paese non entra in gioco questo esito è non solo possibile ma probabile per ragioni che sono esclusivamente finanziarie; poi ci sono quelle relative ai dividendi politici che queste partecipazioni garantiscono per un sistema Paese che, tra l’altro, ha già comprato di tutto e di più (l’ultimo esempio l’occhialeria di cui l’Italia era leader globale fino a una settimana fa e che oggi è francese).
Si possono immaginare infinite combinazioni e soluzioni, ma non si può pensare che la cessione dell’intero sistema economico, industriale e finanziario garantisca e sia nell’interesse dell’Italia e di chi ci abita. Ieri il neo presidente americano ha lanciato il suo programma economico: “seguiremo due semplici regole: comprare americano e assumere americano”. Magari ci sbagliamo, ma crediamo che sia fuori dal tempo, oltre che masochistica, l’idea di comprare francese e assumere francese, o tedesco o americano, come ricetta economica per gli italiani.
I centri direzionali delle società italiane acquisite sono volati all’estero con licenziamenti di centinaia di persone mentre per noi comprare in Francia è impossibile e in altri Paesi difficilissimo; non solo centinaia di persone lasciate a casa, pensiamo a Italcementi venduta a Heidelberg, ma interi centri nevralgici e competenze rimossi per sempre. Forse è davvero il caso di cominciare a preoccuparsi e iniziare a invertire la rotta.