Il tasso di disoccupazione in Italia a maggio ha toccato il 12,6% in risalita da aprile (12,5%) e appena sotto il massimo storico del 12,7% di gennaio e febbraio; sempre secondo l’Istat, nel secondo trimestre del 2014 la variazione congiunturale del Pil dovrebbe essere compresa tra il -0,1% e il +0,3%. Se questa è la ripresa tanto sperata e anticipata dai mercati finanziari si può cominciare a nutrire qualche preoccupazione. “L’economia reale” non mostra alcun segno di ripresa vera e dopo sei anni di crisi non può essere certo uno zero virgola a far lanciare i proclami. I mercati finanziari per il momento vanno avanti per inerzia, ma la prossima stagione di trimestrali molto difficilmente confermerà gli scenari di inizio anno che vedevano l’Europa già fuori dalla crisi e abbondantemente avviata sulla via della ripresa.
Se l’economia reale non offre particolari notizie positive c’è sempre la Bce; Draghi però non ha lanciato niente che assomigli davvero a un quantitative easing e non può essere la riduzione del tasso di interesse a far cambiare marcia. Se la Bce decide di aspettare ancora ci sarà sempre il nuovo parlamento europeo e nuove politiche che consentano finalmente di deviare dall’austerity dando un po’ di flessibilità ai paesi che arrancano; il ministro delle Finanze tedesco Schauble però sostiene di non aver sentito richieste di flessibilità né dal primo ministro italiano, né da nessun altro, che una crescita sostenibile richiede riforme strutturali e che le regole non devono essere cambiate. Per il momento quindi non sembra che ci sia un contesto di regole europee nuovo che possa dare una scossa all’economia italiana.
Certo si può sperare che prima o poi l’Italia riesca ad agganciare minimanente la crescita globale, ma questo non è sufficiente per invertire una tendenza che ha portato i consumi ai minimi e la disoccupazione ai massimi e di certo non basta per risolvere il problema delle finanze pubbliche. Rimangono pur sempre le privatizzazioni, ma le ultimissime notizie non sono particolarmente rassicuranti. La quotazione di Fincantieri sulla borsa di Milano sarà al prezzo minimo della forchetta e con il collocamento di circa il 35-40% in meno delle azioni inizialmente previste. È vero che le partecipazioni statali in società quotate, Enel, Eni, Terna e Snam, sarebbero molto più facili e dal sicuro successo, ma si tratta di aziende dall’elevato contenuto strategico e che hanno un rendimento, in dividendi, più alto del costo del debito pubblico. Bisognerebbe poi aggiungere che agire sul denominatore (il Pil) avrebbe effetti molto più consistenti rispetto alla riduzione del numeratore (il debito) e che la cessione delle partecipazioni non cambia sostanzialmente i termini del problema.
In questo momento, dato l’andamento positivo dei mercati finanziari, l’esigenza di fare riforme vere che agiscono sulla spesa improduttiva e sulla competitività non è particolarmente forte, nemmeno dopo sei anni di crisi incluse fasi in cui si discuteva di default dello Stato italiano con lo spread a 550. Il carico fiscale sulle aziende è sempre più insostenibile perchè la spesa statale è rimasta immutata, e quella sulle famiglie tra Tasi, tassazione dei risparmi, ecc. non è diminuita. L’urgenza è talmente minima che con il Paese in recessione e la disoccupazione record sono arrivate le cartelle agli imprenditori per il canone Rai: una società che nel 2012 ha incassato dai canoni 1 milardo e 750 milioni di euro, in aumento del 2,3%, siccome l’economia è andata bene, sull’anno precedente.
Siamo così ricchi e stiamo così bene che decidiamo di tassarci ogni anno per quasi due miliardi di euro per la televisione. Tanto per rendere l’idea, con due miliardi di euro si potrebbe fare una linea metropolitana (quella nuova di Milano costa un po’ meno in realtà) e in due anni, invece, il mitico ponte sullo stretto che sarebbe l’esempio massimo dello spreco. La scure sui dipendenti pubblici sarebbe un obbligo di mobilità e così via.
Evidentemente le politiche di austerity non hanno funzionato e anzi hanno aggravato una crisi già drammatica. Chiedere però flessibilità a fronte di riforme dovrebbe presupporre un mimimo di sforzo e di manifestazione di buona volontà, altrimenti sarà molto difficile far cambiare idea a Schauble o rendere l’Italia un po’ più favorevole alle imprese. Nella migliore delle ipotesi, il resto del mondo cresce mentre noi rimaniamo fermi, nella peggiore, il tempo dei mercati effervescenti si esaurisce e qualcuno alla fine presenta il conto.