“In Italia il potere d’acquisto delle buste paga è migliorato tra il 2000 e il 2014. Le retribuzioni lorde per unità di lavoro sono aumentate del 6,5% più dell’incremento dei prezzi al consumo,con una variazione media annua dello 0,5%. Nel solo manifatturiero sono salite del 17,6% reale, +1,2% annuo. Incrementi ben superiori a quelli registrati dalla produttività”. È il “grido di dolore” contenuto nell’ultimo Rapporto dell’autorevole Centro studi di Confindustria (Csc), pubblicato proprio mentre si è fatta acuta la polemica sul mancato rinnovo dei contratti di lavoro, tanto da indurre le delegazioni della Cgil e della Uil (ormai quest’ultima confederazione è diventata una succursale della “sorella maggiore” di Corso d’Italia) a disertare l’incontro con l’Associazione degli imprenditori sulla riforma della contrattazione collettiva.
Gli osservatori prevedono che, prima di terminare il proprio mandato, Giorgio Squinzi consentirà alle proprie federazioni di categoria di sbloccare le trattative e arrivare agli accordi di rinnovo (gli alimentaristi e i chimici sono già a buon punto, mentre vi sono più difficoltà per i soliti metalmeccanici). In realtà, il presidente dell’organizzazione di viale dell’Astronomia non si era mai fatto soverchie illusioni di poter riordinare le relazioni industriali in vista della “zona Cesarini” (soprattutto da quando si occupa anche di calcio con maggiori successi di quelli realizzati negli anni trascorsi in Confindustria).
Certo che il destino di Squinzi è davvero singolare. Quattro anni or sono sconfisse il suo rivale, Alberto Bombassei, sulla base di un programma molto semplice e riassumibile in un sintetico slogan (che si poteva persino imprimere su di una felpa): “Mai più un accordo senza la Cgil”. E oggi, quando Squinzi sta preparando le valige, è proprio Susanna Camusso (si veda, da ultimo, il discorso tenuto all’Expo) a rovinargli l’uscita di scena.
La storia a volte si ripete. Anche in passato – ai tempi di Luca Cordero di Montezemolo – i sindacati pretesero che, prima di negoziare nuove regole, si concludessero i rinnovi aperti sulla base di quelle vecchie. Poi ci vollero le fatiche di Ercole per mettere, nero su bianco, qualche norma innovativa, rimasta sostanzialmente sulla carta. Oggi, però, non vi è soltanto un problema di metodo (è nato prima l’uovo o la gallina?), ma si pone una significativa questione di carattere economico. L’ultima tornata contrattuale – è ribadito a chiare lettere nel Rapporto Csc – ha determinato, nel settore manifatturiero, una crescita delle retribuzioni reali pari al 4,6% nel triennio 2013-15, essendosi basata su previsioni di inflazione che si sono rivelate molto più alte di quella effettiva.
A regime l’extra-costo annuo per le imprese è di 4,1 miliardi e comporta una netta riduzione della competitività, che indebolisce i bilanci aziendali e abbassa il Pil e l’occupazione. Secondo le regole stabilite dai contratti stessi, lo scostamento tra inflazione prevista ed effettiva andrebbe recuperato. Questo è un nodo che i prossimi rinnovi devono affrontare o, quanto meno, tenere in considerazione. In futuro, sempre secondo la Confindustria, le dinamiche retributive andranno maggiormente legate alla produttività.
Dagli inizi degli anni Duemila, secondo il Csc, il sostenuto andamento delle retribuzioni ha spinto in alto la quota del valore aggiunto che va al lavoro, tanto che essa è tornata ai picchi storici di metà anni Settanta. Nel manifatturiero è arrivata al 74,3% nel 2014 (74,2% nel 1975). Ciò ha causato una forte erosione dei margini di profitto che scoraggia gli investimenti, il cui minor livello indebolisce la crescita, anche futura. Questa erosione è in controtendenza con l’aumento dei profitti avvenuto in quasi tutti i maggiori paesi avanzati e smentisce l’opinione diffusa secondo cui in Italia i lavoratori sono stati sfavoriti a vantaggio del reddito di impresa.
La cosiddetta questione salariale (consistente in una dinamica delle retribuzioni ritenuta insoddisfacente) va ricondotta, pertanto, all’arretramento del reddito prodotto dal Paese e alle maggiori tasse. Non c’è stata – sostiene la Confindustria – alcuna penalizzazione del fattore lavoro, che anzi è uscito rafforzato nella distribuzione del valore aggiunto. Il reddito da lavoro è l’unico ad aver tenuto durante la crisi, mentre tutte le altre forme di guadagno hanno subito pesanti diminuzioni.
Nel frattempo, come intende agire il volitivo Matteo Renzi? “Di sicuro il governo non aspetterà in eterno”: ha dichiarato al Corriere della Sera Filippo Taddei, uno dei plenipotenziari del premier/ segretario per l’economia e il lavoro. Taddei si riferiva alla riforma della contrattazione collettiva, aggiungendo a tal proposito: “Il governo aveva detto di aspettare un accordo fra sindacati e imprenditori. Ma anche che, senza accordo, sarebbe intervenuto per legge”. La questione è la solita: come dare più peso alla contrattazione territoriale e aziendale.
I sindacati farebbero bene a darsi una mossa, proprio nei giorni in cui – a titolo di lezione per le loro indecisioni – arriva in Parlamento, per la conversione in legge, il decreto sugli scioperi e le assemblee nei siti archeologici e culturali, nella cui stesura non sono stati coinvolti in alcun modo.