Enzo Bearzot è stato un vero eroe italiano. Un uomo giusto, come ha detto Dino Zoff. Perché ha vinto sul campo un memorabile Mondiale di calcio nel 1982 (“I giorni azzurri, le belle bandiere”, titolò allora un settimanale che si chiamava Il Sabato) come Commissario tecnico della nostra Nazionale ma soprattutto per la sua umanità. Un’umanità che fu di grande esempio per i giovani e per tutto l’ambiente. Per me, per noi che amavamo Giovanni Arpino e le sue straordinarie cronache sportive, Bearzot era il “vecio”, grande e saggio protagonista dello stupendo Azzurro tenebra romanzo che Arpino scrisse per Einaudi, raccontando i Mondiali fallimentari del 1974 in Germania. Il vecio amava il calcio e tuttavia in esso intravvedeva le cose importanti della vita.
Oggi si direbbe che sapeva “gestire il gruppo”. Ma in lui la cosa aveva uno spessore in più. Cominciò in Argentina, 1978, a dimostrare che l’Italia era fra le prime al mondo, se solo sapeva soffrire, sacrificarsi e anche divertirsi. Allora, vedendo le immagini arrivare dall’altra parte del mondo, di colpo ci accorgemmo che ci guidava lui, con la sua saggezza, la sua lealtà, il suo difensivismo capace di rovesciare la situazione in pochi secondi. Che entusiasmo per quei Mondiali, partiti in sordina, seguiti poco in un’Italia ancora sotto choc per il caso Moro, e poi diventati la Grande Distrazione, culminata con la sconfitta inflitta all’Argentina. L’Argentina della dittatura, di Kempes e Ardiles, non ancora di Diego Armando Maradona. Il vecio diventò allora il simbolo dell’Italia piegata in due e che si voleva rialzare. Paese colpito quasi a morte, ma ancora vivo. Quel suo nome friulano, quel passato da giocatore di fatica, difensore, quell’aria da boxeur, segno di un setto nasale più volte rotto in scontri aerei contro i centravanti avversari, quella pipa… trovammo in lui un italiano vero. Un italiano che da Caporetto sapeva passare al Piave. E fu proprio così.
In Spagna cominciammo male, malissimo e la Caporetto di quel Mondiale si chiamava Camerun. Ci qualificammo per il rotto della cuffia e finimmo nel girone con Argentina e Brasile, due squadroni pronti a farci a fette. Ma il vecio mise Claudio Gentile su Maradona, con Marco Tardelli davanti alla difesa, Bruno Conti sulla fascia destra e Paolo Rossi cominciò a segnare. E non si fermò più. Battemmo anche il Brasile (“Il Brasile siamo noi”, fu il titolo misurato della Gazzetta il giorno dopo). A noi cronisti l’Italia del vecio seppe farci scrivere straordinari bollettini della Vittoria. Ci regalò una gioia immensa, spalancò simbolicamente e non solo un decennio davvero positivo, gli anni Ottanta.
Ricordo la sera della Finale di Madrid in ogni particolare. Dov’ero, che cosa facevo, come trepidavo. La mia anziana nonna camminava su e giù, recitando il rosario e noi a dirle: “Rigore!”, “No sbagliato!”, “Paolo Rossi!”, la povera donna era frastornata dall’altalena delle emozioni. Ma il grido di Marco Tardelli dopo il 2 a 1 resta infinito, un’emozione da infarto. Il rosario di nonna aveva funzionato. Italia campione. E quella pipa del vecio tirato su dai suoi, Scirea in testa, era l’amuleto. Bearzot appariva come un grande capo indiano venuto da Aiello del Friuli… Ultima notazione personale. Abbiamo festeggiato per qualche anno il compleanno insieme, entrambi nati il 26 settembre, anche se lui aveva solo un anno in più di mio padre. E mi piace ricordarlo così, davvero come un padre, che senza conoscerci, ci insegnò tanto della vita. Di come si perde. Di come si vince. E di come si può scendere dall’affollato autobus di questo mondo lasciando un grande vuoto. Ciao, vecio, ci mancherai.