L’8 marzo 1993, “Festa della donna”, a tarda sera la Guardia di Finanza arresta il presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari. Anche se ormai “tangentopoli” impazza, l’arresto del presidente del più grande ente di Stato rappresenta uno choc nazionale. L’Eni è l’immagine indiscussa dell’Italia all’estero, soprattutto nei Paesi del terzo mondo, la creatura di Enrico Mattei che ha permesso la ricostruzione postbellica dell’Italia e il suo grande sviluppo industriale e produttivo.
La richiesta di “custodia cautelare”, come si dice in burocratese giudiziario, è firmata da tre pm: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo. È la procura della Repubblica di Milano che entra a gamba tesa nei grandi affari di Stato, che ridisegna l’intera immagine del Paese. Non c’è problema nel condurre l’inchiesta a tutto campo. Il gip Italo Ghitti conferma l’arresto e la detenzione di Cagliari a San Vittore.
La prima considerazione che viene spontanea è il “perché” di questa congiuntura economica-giudiziaria, per dirla schematicamente. In estrema sintesi, per quale ragione, proprio quando si avvia il processo di privatizzazione in Italia, scattano provvedimenti giudiziari pesantissimi contro i grand-commis dello Stato? Possibile che non ci sia alcuna relazione? Che sia tutto dovuto a casualità?
Vanno fatte comunque altre considerazioni. Nell’ipotesi, remota, che ci fosse un eventuale “complotto” contro i nostri “gioielli”, l’Eni poteva diventare una vittima predestinata. Intorno all’Eni si è giocata per anni una partita durissima tra socialisti e democristiani per il suo controllo. Sempre intorno all’Eni ci sono le ricadute delle vere e proprio “guerre chimiche” consumate dalla metà degli anni Settanta, quando il settore chimico in grande espansione comincia a declinare.
Nessuno nasconde, nemmeno all’interno dell’Eni, che ci sia una “parte” che vada ai partiti. Se Enrico Mattei aveva ammesso che “usava come un taxi anche il Movimento sociale italiano”, all’interno del grande “Cane a sei zampe” si dice ormai, più sbrigativamente “è pronto un taxi”. Ma che gli enti di Stato svolgessero anche questa “funzione” non era un segreto per nessuno.
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Nel suo ultimo libro “Fotti il potere”, il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, spiegava: “Quello delle Partecipazioni statali era in effetti un ministero politicamente debole. Nei governi di allora, il ministro non contava nulla, ma la carica era comunque molto ambita… Perché chi aveva il bene di sedere su quella poltrona poteva notoriamente disporre nero su nero e spesso Italia su estero, quando non estero su estero, di gigantesche somme di denaro per scopi politici”. Cossiga continua dicendo: “Per capire la dimensione del fenomeno basta rammentare la celebre intervista con cui l’allora ministro dell’Industria Ciriaco De Mita nel pieno dello scandalo-petroli del ‘74 sostenne candidamente che ‘obbligo sub-istituzionale’ dell’Enel in particolare e delle aziende pubbliche in generale fosse quello di “finanziare i partiti”.
Pratica sconveniente? Possibile, anzi probabile. Ma qui bisognerebbe nuovamente scomodare “La favola delle api” di Bernard de Mandeville, che è una frustata in faccia ai “puristi”. Anche con quella funzione “sub-istituzionale”, come diceva De Mita nel lontano 1974, l’Eni era una grandissima realtà mondiale, gli altri enti di Stato fungevano spesso, con i loro interventi, da ammortizzatori sociali per alcune realtà, e il paese funzionava, diventava ricco ed entrava nel “G7” alla pari con le altre grandi
nazioni industrializzate.
Anche se la situazione complessiva degli enti di Stato era da rivedere e riformare, perché l’assalto arriva nel 1993, ben 20 anni dopo la dichiarazione “candida” di Ciriaco De Mita? Per quale ragione si ferisce l’Eni mentre c’è mezzo mondo che guarda alle privatizzazioni italiane e le privatizzazioni stesse sembrano una panacea per la moralizzazione del Paese e la base di un nuovo decollo economico?
L’accusa contro Gabriele Cagliari era di corruzione aggravata per una somma di quattro miliardi di lire di tangenti pagate su un conto svizzero del Nuovo Pignone, per forniture Enel. Chi lo aveva messo nei guai (magari per salvare se stesso) era stato un altro manager dell’Eni. Quando fu arrestato, Cagliari aveva 67 anni e lo tennero a San Vittore per 133 giorni. Lui si rifiutò sempre di fare i nomi che volevano i magistrati. Ogni domanda di scarcerazione, presentata dai difensori del presidente dell’Eni, fu rigettata e nuovi ordini di cattura gli arrivarono addosso. Il 20 luglio del 1993 Cagliari si uccise in una cella di San Vittore, mentre il pm Fabio De Pasquale venne accusato, a torto o a ragione, di aver promesso la libertà all’ex presidente, salvo poi opporsi e partire per le vacanze estive. Persino il presidente Oscar Luigi Scalfaro in quell’occasione “si sveglia” e dice che la custodia cautelare può essere “un danno profondo” e deve essere “un’eccezione e non una regola”.
Il giorno in cui si svolgono i funerali di Cagliari, nella chiesa di San Babila a Milano, arriva la notizia che, a trecento metri di distanza, in un palazzo di piazza Belgioioso, si è suicidato Raul Gardini. La storia della chimica italiana diventa una sorta di “noir”, un puzzle inspiegabile dove è impossibile ricostruire le tessere e trovare il bandolo della matassa, insomma un labirinto.
Anche in questo caso occorre aprire un capitolo contiguo. Gardini è un grande imprenditore, un avventuriero di buona stoffa, che esce dalla grande famiglia di Serafino Ferruzzi. Ha sposato Idina, una figlia del grande Serafino, che, con la protezione di Enrico Cuccia e la sua grande capacità di non infilarsi in scontri di potere nel cosiddetto “salotto buono”, ha creato, del tutto defilato, un autentico “impero” nel settore dei fertilizzanti.
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Gardini ragiona con “idee in grandi”. Si muove come un capitano di ventura infischiandosene di banchieri e politici. Acquisisce Montedison, perché ha in mente un grande disegno. Gardini ha capito che la chimica italiana, per essere competitiva nel nuovo mondo globalizzato, ha bisogno di essere unificata, necessita di massa critica con una grande società. L’affare Enimont è dietro l’angolo, l’unificazione cioè tra chimica dell’Eni (Enichem in questo caso) e Montedison. Ma Gardini è troppo spregiudicato. L’avvocato Lorenzo Necci , che sarà il primo presidente di Eniomont, stabilisce le quote di competenza: 40% di Enimont a Eni, l’altro 40% a Gardini, il 20% sul mercato. Ma appena si costituisce la società, Gardini, attraverso tre suoi amici (Gianni Varasi, Jacques Vernes, Giuseppe Berlini), fa rastrellare le quote sul mercato e arriva alla maggioranza assoluta.
Tutto questo affare provoca un terremoto, con la ribellione degli uomini politici.Scrive Paolo Cirino Pomicino in “Strettamente personale”: “Se fossimo stati veramente corrotti, avremmo avuto in quel momento l’occasione di dare a Gardini ciò che più desiderava: l’acquisizione totale di Enimont. Non era nemmeno difficile: bastava far finta di distrarsi un attimo o di nascondersi dietro le regole del mercato e il gioco era fatto”. Per la stessa ragione, Bettino Craxi, quando depone in tribunale a Milano, definirà la “maxi-tangente Enimont, semplicemente una maxi-balla”. Alla fine Enimont si scioglie e il sogno di Gardini svanisce.
Tutto questo intreccio ferisce e indebolisce l’Eni e aguzza lo sguardo di molti interessati. Il Nuovo Pignone, quello che Mattei acquistò per interessamento del sindaco Giorgio La Pira, finisce a General Electric. Ci sono dei “basisti” (chiamiamoli così per carità di patria) che vogliono fare dell’Eni una sorta di “spezzatino” e collocarlo sul mercato al miglior offerente. Insomma, ci sono quelli che vogliono distruggere la creatura, costruita con grande passione sino alla perdita della vita, di Enrico Mattei.
Ma in questa occasione il “ piano al completo “non passa. È l’Eni che al suo interno, oltre ai “basisti”, ha una scuola di manager e politici, autentici anticorpi che si oppongono alla liquidazione di questa grande realtà italiana. Si ribellano loro, più degli stessi politici della cosiddetta “Seconda repubblica”. Tra il 1996 e il 1998 l’Eni provvede a cedere aziende e rami di aziende fuori mercato, che non riguardano il core business. Le dismissioni riguardano il settore della chimica soprattutto, quello della metallurgia, quelle delle attività non petrolifere, dell’energia, della raffinazione e distribuzione di prodotti petroliferi, della petrolchimica, nonché il settore editoriale (Il Giorno).
Tra il giugno e il luglio 1998 avviene la vendita frazionata in quattro tranche di azioni Eni. Nel febbraio del 2001 viene messa sul mercato una quinta tranche. Ma il Tesoro italiano, nel 2001, detiene il 30-35%, il resto va ad altre sono realtà istituzionali, estere in primo luogo. Il totale incassato per le prime quattro tranche di azioni fu di 12.993 miliardi di lire (6,71 miliardi di euro), per la quinta tranche di 5268 miliardi di lire (2,72 miliardi di euro). A questo occorre aggiungere l’incasso per Il Nuovo Pignone e le altre aziende.
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Non si può dire che ci fu svendita in questo caso. Ma non tutti sono d’accordo. Comunque si perse un’occasione, soprattutto nella chimica, di avere una grande industria che potesse sviluppare la ricerca di base e un retroterra che sapesse affrontare i colossi internazionali. In più, non si è mai compresa la ferita impressa alla grande azienda pubblica italiana. L’avvocato Lorenzo Necci commentava amaramente:
“L’Eni è un colosso da centinaia di miliardi dollari, costruito in 50 anni di sacrifici dagli italiani. Oggi si dice, con eufemismo, che è andata sul mercato e tutti ne sono felici; ma raccogliere con il sessantacinque per cento di privatizzazione (tra cessioni di aziende e sottoscrizioni di azioni) all’incirca trentamila miliardi non mi sembra un grande affare. Occorre tenere conto che l’Eni ha goduto di quello straordinario beneficio che va sotto il nome “di rendita metanifera”, quella tanto cara agli economisti di sinistra, quella della Val Padana e dell’Adriatico, che ha dato profitti per migliaia di miliardi all’anno. Non è quindi chiaro perché lo Stato ne abbia venduto il sessantacinque-settanta per cento senza indicare una strategia. Se si fossero liberalizzati prima il trasporto e la distribuzione del gas, forse il vantaggio per gli italiani sarebbe stato maggiore”.
Necci concludeva poi sconsolato: “Che questa realtà creata da Enrico Mattei, possa un giorno magari finire nelle mani delle massaie del Kansas, mi infastidisce non poco”.
(4 – continua)