Spigolando tra le norme dei pacchetti di decreti legislativi che hanno concluso (almeno per ora) l’iter attuativo della legge delega n.183/2015 (il Jobs Act 2.0) meritano una particolare segnalazione alcuni aspetti che si inseriscono in un dibattito di carattere più generale. Da mesi, ad esempio, si discute, attraverso un florilegio di proposte, come rendere più flessibile, in uscita, il pensionamento, magari senza accorgersi che nell’articolo 41 del dlgs n.148/2015 (sugli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro) una possibile soluzione viene indicata.
In questa materia non c’è mai nulla di completamente nuovo sotto il sole. Come dice il Qoelet, “quel che è stato sarà, quel che si è fatto si rifarà”. La norma, infatti, mette in sinergia taluni elementi che hanno fatto parte – magari con risultati scadenti – di precedenti iniziative legislative.
Di che cosa si tratta, in sostanza? All’interno della stipula – a livello aziendale da parte delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative – di un “contratto di solidarietà espansiva” sarà possibile anche consentire una forma di pensionamento anticipato per quei lavoratori “che abbiano una età inferiore a quella prevista per la pensione di vecchiaia di non più di 24 mesi e abbiano maturato i requisiti minimi di contribuzione per la pensione di vecchiaia”.
Ma procediamo con ordine. Che cosa deve prevedere il contratto di solidarietà espansiva? Una riduzione stabile dell’orario di lavoro con la conseguente riduzione della retribuzione a fronte della contestuale assunzione a tempo indeterminato di nuovo personale. In questo caso, ai datori di lavoro è concesso, per ogni lavoratore assunto e per ogni mensilità di retribuzione, un contributo (a carico della Gias-Inps) pari al 15% della retribuzione contrattuale che, per ciascuno dei due anni successivi, si riduce rispettivamente al 10% e al 5%. Per i lavoratori in età compresa tra i 15 e i 29 anni, per i primi tre anni e non oltre il 29° anno di età, la sola quota di contribuzione a carico del datore è dovuta in misura corrispondente a quella degli apprendisti (non potrebbe essere questa un’ulteriore forma di “cannibalizzazione” dell’apprendistato?). Sono previste esclusioni dal beneficio nei casi in cui il datore nei mesi precedenti abbia adottato misure di riduzione del personale o di sospensione del lavoro.
Come abbiamo anticipato, è in tale contesto che la contrattazione collettiva, con la medesima finalità di aumentare l’occupazione, può definire forme “atipiche” di prepensionamento a condizione che gli interessati, a loro domanda, “abbiano accettato di svolgere una prestazione di lavoro di durata non superiore alla metà dell’orario praticato prima della retribuzione convenuta nel contratto collettivo”. Dunque, un mix lavoro (a part time)-pensione, legato a nuove assunzioni.
Limitatamente al periodo di anticipazione, il trattamento di pensione è cumulabile con la retribuzione nel limite massimo della “somma corrispondente al trattamento retributivo perso al momento della trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale”. Se è più conveniente rispetto al calcolo della pensione, è “neutralizzato” il numero delle settimane a part-time.
Chi ha seguito il dibattito che ha fatto di contorno al Jobs Act ricorderà, senz’altro, un progetto ricorrente del ministro Poletti: quello di chiedere qualche contropartita, in chiave solidaristica, ai lavoratori che fruiscono di strumenti di sostegno del reddito (Cig, Cigs, ecc.). Costoro, se ultrasessantenni, potranno essere chiamati – si veda l’art.26 del dlgs n.150/2015 – a svolgere un’attività di pubblica utilità da parte delle amministrazioni pubbliche, ricevendo in cambio un’indennità d’importo pari all’assegno sociale (448,52 euro al mese nel 2015). L’assegno è incompatibile (quindi non cumulabile) con eventuali pensioni dirette Ivs (non così per i titolari di pensioni e assegni di invalidità civile). Pertanto, i pensionati che svolgono lavori di pubblica utilità devono optare tra la pensione e l’assegno.
È la solita storia che caratterizza la cultura “giovanilistica” di questo Governo di cui abbiamo già parlato su queste pagine: i pensionati non devono lavorare e, se insistono per farlo, non devono essere retribuiti.