Perché mi sono messo a scrivere un libro su Bill Congdon? Non è facile scavare e vedere chiaro in certi tipi di decisione. Ma forse potrei dire che le molle che mi hanno spinto sono state due: la gratitudine e il dispiacere.
La gratitudine è quella verso il Bill. L’ho incontrato – per ragioni di lavoro all’inizio e poi per l’amicizia di cui mi faceva dono – a metà degli anni Ottanta. Conoscevo già a grandi linee la sua storia. Giovane ribelle dell’alta borghesia americana aveva rifiutato di seguire la carriere che gli era stata preparata in famiglia per seguire quella ben più strana dell’artista. Poi la tragica esperienza della Seconda Guerra Mondiale vissuta non come soldato – aveva fatto una specie di obiezione di coscienza al servizio militare -, ma come guida di ambulanze; in questa veste aveva partecipato alle battaglie di El Alamein e di Montecassino ed aveva visto la tragedie del campo di concentramento di Bergen Belsen. Tornato negli USA si era trasferito a New York, dove aveva condiviso la straordinaria stagione pittorica dell’action painting, ed era diventato anche famoso. Ma tutto questo non gli bastava; una domanda inesauribile di salvezza, di purificazione, lo ha spinto a mettersi forsennatamente in viaggio alla ricerca dell’immagine pura, dello scoglio sicuro cui ancorare la sua nave sballottata dall’insicurezza, dall’insoddisfazione, dall’inquietudine. Sapevo che in questo peregrinare Congdon aveva scelto come seconda patria Venezia, da lui dipinta centinaia di volte, e che ogni nuovo viaggio era per lui in fondo una sorgente di disillusione, nuovo combustibile per una disperazione che cresceva fino a fargli sfiorare la scelta del suicidio. Sapevo che nel 1959 aveva abbracciato la fede cattolica e che, per un giro provvidenziale di amicizie, aveva conosciuto don Giussani e il suo movimento, cui si era dedicato anima e corpo, fino ad accettare di trasferirsi definitivamente a Gudo Gambaredo, dove sarebbe fiorita l’ultima incredibile stagione della sua pittura. Sapevo a grandi linee tutte queste cose. Ma un conto è leggerle sui libri o sentirne parlare da altri e un conto è condividerle con lui. Condividere, cioè, il suo sguardo.
Infatti è proprio il suo sguardo che mi ha affascinato. Non sto parlando un po’ romanticamente dei begli occhi così come si direbbe di una ragazza. Sto parlando del «modo di guardare», cioè di conoscere. Stando con Bill mi sono accorto che per me «guardare» è spesso una pura operazione meccanica, quella stessa che potrebbe fare una macchina fotografica che registra asetticamente le cose che la «impressionano» e il cui risultato è, appunto, se va bene, una superficiale impressione. Per lui no. Per lui lo sguardo era uno scavo, era uno scandaglio gettato al di là della superficie di ciò che vedeva, alla ricerca dell’immagine, del fondo delle cose. Per questo era capace di nessi sorprendenti, di scoperte continue, di accettazione infantile di tutto, perché tutto parlava ai suo sguardo attento. E per questo, in forza di quello che chiamava il suo «dono» artistico, poteva ripresentare sul panello una realtà completamente trasfigurata, anticipo della redenzione cui – secondo un’espressione di san Paolo a lui cara – tutta la creazione anela. Non sto a misurare quanto abbia imparato di questo suo modo di guardare. Il solo avermene aperto la prospettiva mi dà nei suoi confronti un debito di gratitudine, che il libro vuole in parte soddisfare.
Poi mi ha mosso il dispiacere. Il dispiacere per i molti amici che non l’hanno conosciuto, che non hanno potuto cercare di immedesimarsi col suo sguardo, che non hanno potuto conversare con lui o leggere qualche sua lettera in cui riprendeva e approfondiva spezzoni di dialogo e invitava ad andare sempre più in profondità alla scoperta del reale. So bene che un semplice libro non può sostituire questa esperienza. Ma magari può aiutare ad incamminarsi.
Il libro “William Congdon. L’avventura dello sguardo” verrà presentato giovedì 8 ottobre alle ore 18.30 nell’aula Pio XII in via sant’Antonio, 5 a Milano.