C’è un’altra considerazione sulla disoccupazione giovanile che si può aggiungere a quanto scritto in precedenza. Ma com’è possibile che a questi giovani presenti sul mercato del lavoro, che in fondo sono appena 1,6 milioni, dopo essere stati oltre 4 milioni fino al 1990, siano offerte così poche opportunità di lavoro, tanto da lasciarne senza oltre 4 su 10, e che questa disoccupazione giovanile, che in fondo non arriva a 700 mila persone, la metà, in valore assoluto, di quella che si aveva nel 1985, proprio non riesca a essere assorbita e continui anzi a crescere?
Una risposta che viene spesso data è che le imprese, potendo contare su un’offerta in crescita di persone che hanno perso il lavoro, hanno preferito e preferiscano “l’usato sicuro” al posto di giovani senza esperienza, e la cui preparazione non gode di molta stima. Vero, ma non sufficiente. Chiediamoci piuttosto cosa sarebbe successo, in questo Paese, se solo la dinamica demografica fosse stata un po’ meno negativa di quella che è stata, e se la partecipazione giovanile al mercato del lavoro fosse scesa anche solo un poco di meno di quello che è scesa. L’aritmetica ci direbbe una catastrofe, con molti, ma molti più giovani senza lavoro di quelli che abbiamo oggi. O forse no?
Non sono affatto sicuro che una maggiore crescita demografica o tassi di attività più alti, vale a dire un maggiore ammontare dell’offerta di lavoro (giovanile) si sarebbe tradotta in altrettanta disoccupazione aggiuntiva, per l’incapacità o l’impossibilità del sistema produttivo di stare al passo con la crescita dell’offerta di lavoro. Non ne sarebbe piuttosto venuta una spinta alla creazione di posti di lavoro aggiuntivi, in proprio o dipendenti, e con essi della ricchezza reale prodotta?
In ogni caso meglio una disoccupazione esplicita più alta, oppure una disoccupazione più bassa, ma solo perché si preferisce non mettersi alla ricerca di un impiego, per evitare tutto ciò che ne consegue, in termini di competizione e, perché no, di adattamento a quello che le condizioni offrono? Sappiamo tutti che vi sono professioni che ben pochi tra i giovani italiani sono disponibili a svolgere e sono appannaggio di lavoratori stranieri. In tempi di vacche grasse questo poteva andare bene, ma ora che le vacche sono magre, meglio non far nulla che “abbassarsi” a certi lavori? Crediamo davvero che sia del tutto casuale che fra il 2007 e il 2014, mentre gli occupati stranieri in Italia hanno continuato ad aumentare di anno in anno (per un totale di quasi 850 mila unità), quelli italiani siano invece diminuiti di quasi un milione e mezzo, come se la crisi ci fosse stata solo per questi e non per quelli? Certo, anche tra gli stranieri i disoccupati sono aumentati, inevitabile, e molti di essi hanno dovuto tornare al Paese di provenienza, ma stiamo parlando di ordini di grandezza molto, molto diversi.
Comunque fateci caso, quando si parla di mercato del lavoro si parla di donne e di uomini, di giovani e non più giovani, ma di italiani e stranieri non si parla quasi mai (nonostante i dati ormai ci siano), forse non foss’altro per non dar corda alla Lega. Perché la Lega è sì razzista, quando dice “prima i nostri”, ma non è certo razzismo dire ai nostri giovani: sveglia, mettetevi in gioco, accettate la competizione, con chiunque.
Diciamo la verità, il buonismo da una parte e il giustificazionismo dall’altra hanno portato anche questa venatura di razzismo mascherato: noi, i nostri, figli, abbassarci a fare la badante, le pulizie, l’infermiere, il muratore, il cameriere? Non sia mai, tutti all’università! Tranne il cameriere, forse, ma in Inghilterra. Se poi a questo si combina un egualitarismo fondato sul rifiuto del merito (spesso in nome di un equivocato “diritto a lavoro”) e l’illusione che si possa fare a meno della competizione, anche per il posto di lavoro, o che questa sia un male in sé…. Beh, allora il puzzle è completo, anche se non ci pace l’immagine che ne viene fuori e preferiamo piangerci addosso, trovare un comodo capro espiatorio, e dare “all’untore” a chi ci viene di volta in volta indicato (oggi vanno di gran moda le banche e la Merkel, ma tra i “cattivi” sono tornate in auge le solite multinazionali, messe in stato d’accusa sotto i riflettori dell’Expo).
C’è una interessante lettura che si può fare dei dati (riportati nel grafico a fondo pagina) su tasso di attività e tasso di disoccupazione dei giovani fino a 24 anni, confrontati fra i vari paesi. Un confronto che per il 2014 mostra, guardando ai principali paesi europei, una significativa correlazione inversa tra questi due indicatori, per cui ai valori più alti dell’uno corrispondono i valori più bassi dell’altro e viceversa (per i pignoli, il relativo coefficiente di correlazione è pari a -0,6229). Il tasso di disoccupazione più basso è quello tedesco – qualcuno direbbe dell’odiata Germania – appena il 7,7%, in presenza di un tasso di attività giovanile del 49,9% (simile a quello che in Italia si è avuto fino agli anni Ottanta), non il più alto in assoluto, ma certamente della “fascia alta”; il tasso di attività più alto è quello olandese 67,4%, al quale si accompagna un tasso di disoccupazione del 12,5%, indubbiamente da “fascia bassa”. All’altra estremità del grafico, Italia e Spagna, in condizione diametralmente opposta: bassi tassi di attività (quello italiano, 27,1% ,è il più basso in assoluto), affiancati da tassi di disoccupazione ai massimi (42,7% l’Italia, 53,2% la Spagna).
Certo, si potrebbe dire, in gergo statistico, ma qual è la variabile dipendente e quale la variabile indipendente? Ossia, guardando al top della classifica, vi è un alto grado di partecipazione al mercato del lavoro perché vi sono molte opportunità e quindi bassa disoccupazione, oppure i giovani entrano e restano sul mercato del lavoro, e un lavoro prima o poi lo trovano o se lo creano? La risposta è tutta in quanto detto prima guardando all’evoluzione storica del grado di partecipazione giovanile in Italia, quindi, per favore, smettiamo di consolare tutti quei giovani che si piangono addosso, e alla mattina cacciamoli fuori di casa fino a sera, perché almeno un posto di lavoro se lo vadano a cercare. Certo, inizialmente questo alzerebbe il numero dei disoccupati (ma che differenza fa, che siano conteggiati al di qua o al di là della linea di demarcazione fra attivi e inattivi?), ma credo che alla lunga qualche effetti positivo si vedrebbe.
In conclusione: bene il Jobs Act, perché qualche posto di lavoro lo porterà, forse anche ai giovani (e vorrei vedere, visto che circa un terzo del costo è coperto dallo Stato); schermaglie politiche a parte, con vecchi e nuovi populisti, sono buoni tutti a “creare” posti di lavoro mettendoci dei soldi a fondo perduto; più importante, però, credo sia lo “sveglia!” che Renzi non manca giorno che non dia; che sia poi efficace o meno lo dirà il tempo, ma se così non fosse non ci resta che piangere.
(2- fine)