Non bastano le analisi giuste per preparare soluzioni corrette. Guardiamo alla scuola. L’analisi ci dice che l’istruzione in Italia è sempre meno in grado di formare le competenze necessarie per rispondere alle esigenze di un mondo del lavoro in continuo cambiamento. La risposta è quella di dotare le scuole dei più moderni strumenti elettronici come le lavagne interattive, i personal computer, i tablet per realizzare quella scuola 2.0 capace di affrontare le sfide della modernità.
E in effetti molto si è realizzato su questa strada. Sia per iniziativa di singoli istituti, sia nell’ambito di progetti sperimentali, come quello chiamato Cl@ssi 2.0 iniziato un po’ in sordina nel 2009 e che ha progressivamente coinvolto 156 classi in altrettante scuole che potevano disporre di particolari finanziamenti per nuove dotazioni informatiche.
I risultati? Come scrive Adolfo Scotto di Luzio, docente di pedagogia a Bergamo, nel suo libro “Senza educazione, i rischi della scuola 2.0” (Ed. Il Mulino, pagg. 156, euro 12), “c’è qualcosa di profondo e inquietante che questa esperienza delle Cl@ssi 2.0 rivela sullo stato della nostra istruzione pubblica, e cioè il suo andare per conto proprio, senza direzione, vittima di un evidente difetto di razionalità amministrativa, che si risolve in una sostanziale incapacità da parte del centro di capire quello che accade nelle scuole e nelle classi e quindi di governare in maniera efficace il sistema”.
Questo perché l’iniziativa era partita senza un obiettivo strategico preciso, senza un supporto pedagogico agli insegnanti, senza un meccanismo oggettivo di valutazione dei risultati. Tanto che la maggior parte degli insegnanti ha rilevato come maggior effetto della sperimentazione il cambiamento dell’organizzazione dell’aula, per esempio con i banchi in cerchio invece che in fila.
Il problema di fondo è che appare fuorviante la pretesa che la scuola stia al passo con i tempi. I “nativi digitali” che ora affollano le aule delle medie e dei licei non hanno bisogno della scuola per utilizzare i nuovi strumenti del comunicare, hanno una padronanza delle potenzialità dell’informatica che non può che mettere oggettivamente in difficoltà gli insegnanti di un’altra generazione. Prima che il “saper fare” la scuola deve insegnare il “saper essere”, il formare i criteri di giudizio necessari per muoversi all’interno di una realtà sempre più complessa.
“La scuola della pratica e della competenza – scrive Scotto di Luzio – è la perentoria affermazione di un principio ottocentesco che addita nel lavoro e non nello studio, il destino dei figli del popolo”. E il lavoro oggi vuol dire utilizzazione in dosi sempre più massicce dei meccanismi basati insieme sulla comunicazione e sull’elaborazione dati. Le più grandi e dinamiche imprese di oggi si chiamano Amazon, Skype, Google, Facebook, tutte basate sull’utilizzazione intensiva delle potenzialità della rete.
Ma la scuola dovrebbe andare oltre all’immagine di persona come consumatore dei nuovi beni o come operatore nelle nuove imprese. Anche solo perché le nuove potenzialità offrono nuove strade a una creatività che non può che intrecciare fortemente l’umanità con la tecnologia. “È possibile – scrive Scotto di Luzio – ripensare la qualità dell’istruzione sganciandola cioè dall’attuale subordinazione al principio di efficienza per restituirla al terreno che le è proprio e che riguarda la qualificazione culturale dell’individuo”.
Cultura quindi come capacità di dare un senso, un valore, un significato alle cose che si fanno, con la responsabilità di non confondere gli strumenti con i fini e con la libertà di proporre un buon, vecchio libro per mettersi in contatto con la storia e la realtà.