In tutti gli scontri, le battaglie, le guerre, dall’antichità ad oggi, il problema principale è capire cosa sta davvero accadendo sul campo e solo quando questo elemento viene chiarito si può poi decidere cosa è giusto o sbagliato e muoversi di conseguenza. Ora, in tutta la vicenda che avvolge l’importante e delicata questione del premier italiano Silvio Berlusconi, dalla distanza cinese, sembra esserci grande disordine, in cui la polvere della guerra copre tutto o quasi.
In tempi non sospetti, prima di ogni altro in Italia, ho denunciato da queste colonne la pericolosità strategica del progetto di South Stream promosso dalla Russia e sostenuto da Berlusconi. Come ho detto allora, esso è un progetto che va contro gli interessi strategici dell’Italia e rispetto a cui Berlusconi, nell’interesse dell’Italia e anche suo personale, farebbe meglio a raffreddarsi.
Altrettanto insensato e controproducente ci è parsa l’attacco violentissimo e sostanzialmente gratuito lanciato dal quotidiano della famiglia Berlusconi contro il direttore dell’Avvenire, Dino Boffo. Entrambe le mosse sono importanti errori strategici che hanno aperto le cateratte degli attacchi della stampa straniera contro il premier.
Detto questo però bisogna anche non dimenticare cosa ha fatto Berlusconi e perché la sua popolarità in Italia non crolla. Nessuno può realisticamente pensare che Berlusconi riceve voti dagli italiani solo perché dice barzellette, è simpatico, mostra in tv ragazzotte in carne seminude ed è una specie di incantatore di serpenti. L’Italia, settima economia del mondo, con un tasso di scolarizzazione universitaria molto alta, non è popolata da analfabeti.
Berlusconi ha vinto perché rappresentava, e rappresenta, il nuovo rispetto a tanti altri personaggi politici che sono eredità del periodo chiamato Prima repubblica. È il nuovo perché ha portato tanti nuovi volti alla politica. Non tutti questi uomini e donne nuovi saranno stati all’altezza del compito, ma sono comunque una speranza di nuovo.
La sinistra non è stata altrettanto innovativa, e quando ha cercato di inseguire Berlusconi nell’innovazione lo ha fatto nel lato minore, candidando ragazzine bellocce invece che persone autenticamente competenti. Inoltre il governo sembra più dedito al lavoro, rispetto al vecchio governo di Prodi, che invece sembrava travolto dalle polemiche interne a una formazione troppo spezzettata.
Se quindi cacciare Berlusconi significa ritornare alla Prima repubblica più o meno riformata allora naturalmente la maggioranza della gente dice: no. Né basta la risposta di Di Pietro la cui bandiera sembra solo quella della opposizione frontale a Berlusconi. L’opposizione dovrebbe avere una risposta sofisticata, innovativa, più innovativa di Berlusconi, ma non ce l’ha, lancia un semplice richiamo all’ordine che sembra un tuffo nel passato mentre l’Italia, come tutti molti stati moderni, ha bisogno di cambiamenti radicali.
Questa assenza di alternativa politica rinforza Berlusconi all’interno, nonostante i suoi enormi errori strategici. Questa è la vera debolezza di Berlusconi. Egli è certamente un genio della tattica politica interna in Italia, vede il combattimento individuale, il corpo a corpo con sudore e sangue, quello dove brilla il direttore del Giornale Vittorio Feltri, ma appare ingenuo nella grande strategia, che deve combinare insieme questioni interne e questioni internazionali.
Ma i due elementi non possono funzionare l’uno senza l’altro in questo mondo globalizzato e interdipendente: il successo interno non può esistere e resistere senza l’ossigeno che le arriva dall’estero. Qui, all’estero, Berlusconi sente l’aria nuova, ma come nel caso di South Stream, spesso non capisce la differenza tra l’ossigeno vivificante o il velenoso azoto. D’altro canto la violenza dello scontro politico interno e la paranoia che la circonda crea una situazione in cui sembra impossibile restare freddi, distaccati e concentrarsi sulle questioni politiche al di là delle persone che le portano avanti.
La Cina non ha certo la libertà di stampa occidentale, ma di sicuro ha elementi importanti che forse varrebbe la pena per gli italiani di osservare. In Cina c’è libertà di discutere le questioni di merito: bisogna fare riforme democratiche? Sì, no, perché, come bisogna affrontare la crisi economica, il rapporto con l’America, e via di questo passo. I giornali però non sono liberi di criticare i leader del paese o di prendere le parti dell’uno contro l’altro.
In Italia la situazione pare opposta: politici di opposte fazioni si scambiano insulti personali ma nessuno affronta o discute costruttivamente le questioni centrali per il futuro del paese. Vista da Pechino sembra che alla fine, in sostanza, ci sia una libertà di stampa più efficiente e utile in Cina che in Italia.
Certo nella “soluzione cinese”, i cittadini o gli intellettuali rimangono estranei alla scelta dei dirigenti del paese, e partecipano solo nella scelta delle politiche. Ma nella “soluzione italiana” i cittadini non solo non partecipano alla scelta delle politiche, ma le politiche stesse sono travolte dal fumo della confusione personalistica, e alla fine i cittadini partecipano alla scelta dei leader quasi come fosse uno scontro tra gladiatori, un derby di calcio, e qui i tifosi si dividono per “fede” calcistica o proiezioni di “immagine”.
Questo sembra un grande fallimento della politica, ma forse è anche un grave fallimento del ruolo della stampa, fondamentale per tutte le società e specie per quelle democratiche. Un debito di libertà di stampa, come si vede oggi in Italia, è esso stesso un debito di democrazia, con o senza Berlusconi.
Così forse qualcosa che si sta perdendo nelle polemiche per o contro Berlusconi, per o contro Repubblica, giornale o partito-giornale, è il senso delle cose. Cosa deve fare l’Italia nei mille dossier interni e internazionali aperti? Nella coscienza poi che è la politica estera, in realtà sempre, con i suoi mille condizionamenti, che determina la politica interna. Il contrario non vale.
L’interno è importante per il fatto che la risposta da dare all’estero deve partire dalle condizioni interne del Paese, ma non ci si può rinchiudersi crogiolandosi nel proprio bozzolo. Questo in sostanza è lo spirito della grande lezione cinese in questi 30 anni di riforme.
Prima delle guerre dell’oppio, l’economia cinese era grande un terzo dell’economia globale, in proporzione oggi l’economia americana rappresenta solo il 21-22% dell’economia globale. Insomma per il tempo la Cina era più grande di quanto oggi sia l’America. Ma la decisione di restare chiusa davanti ai rapidi cambiamenti globali in pochi decenni ha trasformato la Cina da grandissima potenza a colonia smembrata di una mezza dozzina di nuovi paesi emergenti. Chiudersi non può essere che la fine, e non affrontare le questioni cruciali, e non solo i nomi, le persone, è l’annuncio della fine.