Di ritorno dalle vacanze, in un periodo solitamente non ricchissimo di news, in Italia è arrivata la notizia, inattesa, del cambio di amministratore delegato di una delle maggiori società industriali italiane. Luxottica, 19 miliardi di euro di capitalizzazione, è una storia di successo incredibile e leader mondiale nel suo settore; il suo fondatore e principale azionista con una quota superiore al 60%, Leonardo Del Vecchio, si è fatto da solo partendo da una fabbrica del nordest negli anni ‘60 con appena qualche dipendente (ma in “questo Paese” non ci sono opportunità). Non sono molte le storie da “old economy” – la società produce occhiali – che possono vantare una crescita di questo tipo.
La notizia, dicevamo, è stata accolta con una certa sorpresa dato che la società sotto l’ormai ex amministratore delegato Andrea Guerra, aveva ottenuto risultato ottimi (così come dalla sua fondazione peraltro) riflessi, tra l’altro, in una performance di borsa eccezionale, soprattutto visto l’andamento dei mercati negli ultimi anni.
Sui giornali, giustamente e inevitabilmente, sono finite le ipotesi riguardo i motivi della separazione, da uno scontro sulle scelte strategiche tra proprietà e management, passando per la volontà di Del Vecchio di riprendere le redini fino a una diversità di vedute sulle politiche di incentivazione del management. In ogni caso, Del Vecchio richiesto di un commento si è limitato a dire di essere “tranquillissimo”; evidentemente il fondatore e azionista ritiene che questo cambio non modifichi le prospettive della società.
L’opinione sembra andare per la maggiore sui mercati sia perché il titolo dopo un iniziale sbandamento ha cominciato a recuperare, sia perché non pochi investitori credono che il posizionamento competitivo dell’azienda rimanga ottimo e, soprattutto, che la presenza di Del Vecchio sia una garanzia per il futuro.
Questa è, per sommissimi capi, la cronaca dei fatti. Da questi eventi si è riproposto il dibattito sulle imprese “familiari”, in contrapposizione a quelle, non si dice ma si pensa, “migliori” manageriali e di “mercato”, magari public company e senza azionisti di maggioranza. Il tema della successione del fondatore, che ovviamente non è eterno, è certamente importante ed è opportuno che un’azienda, soprattutto se quotata e di grandi dimensioni, diventi “manageriale” e che ci sia una separazione tra management e azionista. Quello che non si comprende è una certa vergogna che si percepisce quando si scrive e si parla di aziende che hanno ancora un azionista chiaro e definito, convinti in fondo che si tratti di un modello arretrato e arcaico rispetto a un sistema di public company contendibili e di mercato dotate di una governance più moderna.
Il complesso di inferiorità è sostanzialmente incomprensibile per almeno due motivi. Il primo è che si possono citare moltissime imprese di eccellenza assoluta che non rientrano nella categoria di public company quotate (Ferrero, Barilla, Esselunga, Mapei, ecc.) e che hanno fatto la fortuna economica dell’Italia. Il secondo motivo è che l’impresa quotata e public company si muove con logiche, di massimizzazione del profitto, che non sempre rientrano nel migliore dei mondi possibili. È notizia di ieri, per esempio, che l’americana Burger King ha deciso di fondersi con la canadese Tim Hortons anche con l’obiettivo di ottenere una tassazione inferiore. Nota Bloomberg, a proposito dell’operazione, che da metà giugno alla fine di luglio almeno cinque grandi società americane hanno deciso di completare operazioni per ridurre l’aliquota fiscale e che Barack Obama ha criticato le società americane che traslocano in altre nazioni per diminuire il carico fiscale.
Il principale azionista di Burger King è il fondo di investimento 3G Capital, che siccome deve massimizzare il rendimento è ben contento di aver trovato un modo per aumentare l’utile per azione. Questo è quello che avviene in “America”, la patria del capitalismo, dove le condizioni per fare imprese sono infinitamente migliori che in Italia.
L’impresa di “mercato” molto probabilmente nel nostro Paese non lascerebbe niente, figuriamoci gli operai, tra una burocrazia folle, tasse altissime, legislazione sul lavoro ingessata e un sistema giudiziario inefficiente, dove tutto può andare per le lunghissime senza che nessuno risponda di niente. Non si capisce quindi il fastidio, il complesso di inferiorità, con cui, parlando di certe aziende che tutti riconoscono come eccellenti, si è “costretti” a citare il piccolo dettaglio che ci sia ancora un azionista di maggioranza con un nome e un cognome e non con una sigla.
Il problema non sembra tanto quello di muoversi verso un altro modello che mostra tra l’altro limiti evidenti e che pone sfide enormi alle economie sviluppate, ma quello di fare in modo che le imprese rimaste in Italia siano messe nelle condizioni di continuare a esistere e possibilmente crescere. Il Financial Times il giorno dopo la notizia delle possibili dimissioni di Guerra ci ha preso un po’ in giro con “Mr Del Vecchio” diventato una figura “quasi mitologica” in Italia.
Per noi è mitologico e basta (19 miliardi di euro vendendo occhiali! Altro che America o Londra!) e ci auguriamo altri come lui, Ferrero, ecc.