Chi non ha mai sentito l’aria che il geniale Nino Rota compose per Amarcord, che accompagna il film dalla primissima inquadratura, senza avvertire immediata una fitta all’altezza del quarto intercostale sinistro, un qualcosa spalancarsi dove pulsa quello che il Poeta suole – o soleva – rimare con amor? La penna del commentatore quasi si arresta, riverente, davanti alla bellezza del connubio musica-immagini (e senso) di questo film della semplicità e della memoria, nato dai fantasiosi ricordi di Federico Fellini e Tonino Guerra. Forse niente seppe scrivere Nino Rota di più puro e felice di queste note, divenute negli anni l’inno dei felliniani di ogni età e di ogni continente.
Girato senza particolari intoppi, ricorsi invece in altre avventure del maestro, tra il gennaio e il giugno del 1973, Amarcord uscì in Italia il 18 dicembre dello stesso anno, riportando ampio assenso sia tra il grande pubblico che tra le file della critica, anche quella in altre occasioni ostica col regista. Ricorre quindi il quarantennale di un film importante e incisivo, rimasto tanto emblematico nella coscienza di tutti al punto che il suo titolo è da allora diventato un neologismo. Infatti, preso dal dialetto romagnolo a m’rcord, cioè “io mi ricordo”, il termine con la grafia adattata di “amarcord” è entrato stabilmente nel lessico italiano con il significato di “evocazione nostalgica”. Segnalo che questo non è il solo caso in cui un’opera di Fellini innesca simili fenomeni sociolinguistici: avvenne almeno in altre due occasioni, per I Vitelloni (1953) e per La Dolce Vita (1960). Quando si dice il genio di un autentico artista.
Amarcord racconta tante storie di paese, della Rimini degli anni Trenta, che oscillano formalmente tra sogno e realtà, e hanno un contenuto tra il nostalgico e l’irridente; nascono dall’adolescenza – del regista come di suoi antichi conoscenti – per dilatarsi fantasticamente fino alla dimensione del paradigma universale. L’azione del film dura da una primavera a un’altra primavera, dalla festa di San Giuseppe con in piazza il falò della “fogarazza”, celebrante la morte dell’inverno, fino al banchetto matrimoniale della parrucchiera Gradisca, sul ventoso litorale un anno dopo.
Protagonista è l’adolescente Titta, che cresce in una famiglia provinciale, tra le costrizioni dell’educazione cattolica e la retorica del regime fascista. In mezzo ci sono gli episodi tragicomici di Titta a scuola, la parata fascista – parodiata – per il Natale di Roma, i rapporti di Titta e i suoi amici con le imposizioni della Chiesa, lo zio matto che sale su un albero gridando “voglio una donna”, il passaggio del Rex, il passaggio della Mille Miglia, le prime esperienze erotiche del Titta con la matronale Tabaccaia, la grande nevicata, la parrucchiera del paese che si concede al principe Umberto – di passaggio al Grand Hotel – dicendo “principe, gradisca”.
La famiglia, e in particolare la madre di Titta, è il cuore di questo mondo onirico-evocativo: il film infatti si conclude con la sua morte e con il matrimonio della procace parrucchiera Ninola, detta Gradisca, che lascia il borgo per amore del suo bel carabiniere; episodi che segnano – il primo – la fine dell’adolescenza per Titta e – il secondo – la fine del microcosmo universale narrato da Fellini nel film.
Preceduto da due episodi minori (I Clown, 1970; Roma, 1972), prodotti nell’ambito di un progetto in collaborazione con la Rai tv che ne prevedeva tre, anche Amarcord doveva essere un piccolo episodio, un leggero passo a ritroso nelle memorie del borgo natale. Il progetto è invece cresciuto fino a diventare quell’ampio e coeso film di cui tutta la produzione del cinema italiano ha beneficiato. Inoltre, Amarcord non è stato il primo, ma probabilmente il più importante film nato non dal contraddittorio artistico con i soliti collaboratori – Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano (morto nel 1972) – ma dalla condivisione dei ricordi con il coetaneo e quasi compaesano (di Sant’Arcangelo di Romagna) Tonino Guerra. Pasolini nella recensione dirà infatti che il film avrebbe dovuto chiamarsiAsarcurdem, cioè “noi ci ricordiamo”, perché frutto della sovrapposizione inventiva e memoriale dell’estro dei due, il regista e lo sceneggiatore.
Intervistato dalla Rai in occasione dell’Oscar per il miglior film straniero – aprile 1975 – Fellini a suo modo spiega il successo planetario del film, dicendo fra l’altro che “i personaggi di Amarcord, i personaggi di questo piccolo borgo, proprio perché sono così, limitati a quel borgo, e quel borgo è un borgo che io ho conosciuto molto bene, e quei personaggi, inventati o conosciuti, in ogni caso li ho conosciuti o inventati molto bene, diventano improvvisamente non più tuoi, ma anche degli altri”. L’invenzione libera e fiera di sé, quindi, come motore e motivo della poetica felliniana.
Il passaggio del Rex al largo del borgo, con tutti i suoi personaggi in adorante attesa e poi commosso giubilo, rimane allora nella memoria di tutti come la sequenza simbolo del film, della cui limitatezza storica non importa a nessuno. È storia, infatti, che il transatlantico non passò mai al largo delle coste riminesi, se non dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale: negli anni Trenta, all’epoca del suo fulgore e delle vicende del film, faceva scalo a Genova e non solcava le rotte adriatiche. Ma dentro Amarcord tutto è trasformato in Cinema dalla forza espressiva dell’immaginario di un artista come Federico Fellini, il quale – come disse Martin Scorsese – rimane tra i pochi “veramente indispensabili” alla storia del cinema.