Improvvisamente, dopo un turno di servizio, Vigor Bovolenta ci ha lasciati. L’ennesimo caso di morte in campo di un alteta ha richiamato il suo precedente più prossimo, quello legato a Fabrice Muamba, il difensore del Bolton tornato alla vita dopo quattro arresti cardiaci.
Due atleti, due fisici allenati, due cuori che s’inceppano. Con una differenza, fondamentale: il primo, quello di Fabrice Muamba, si rimette in regolare movimento dopo 78 interminabili minuti; il secondo, quello di Vigor Bovolenta, non riparte più. Da sabato a sabato, due destini uniti dalle circostanze. Più eclatanti quelle che coinvolgono il centrocampista del Bolton: per il luogo (uno stadio gremito) e per la risonanza (una partita di coppa d’Inghilterra, con immagini subito rilanciate a livello mondiale). Più dimesse quelle che avvolgono gli ultimi istanti del pallavolista: una partita di quarta serie, un palazzetto di provincia, una copertura mediatica assente. Una scelta di vita che il centrale aveva fatto per restare più vicino alla moglie e ai quattro figli, dopo aver vinto dappertutto, con i club e con la Nazionale. Tranne la medaglia d’oro olimpica, maledizione per la pallavolo italiana.
La differenza tra i due? Una risposta pratica parlerà giustamente della qualità nei soccorsi: a Londra c’era un defibrillatore, che ha consentito di tamponare la situazione sul campo prima di poter raggiungere l’ospedale dove poi si è completato quello che tutti hanno definito un miracolo. E poi si potranno anche eventualmente ricordare i problemi di cuore avuti in gioventù dal pallavolista, per un’aritmia ballerina (con la mancanza di controlli preventivi sul centrocampista a fare da contraltare). Ma ben più difficile è trovare un motivo con cui giustificare il fatto che Muamba si sia salvato e Bovolenta invece no. Anche perché s’innescherebbe una spirale da cui non si riuscirebbe più a uscire, cominciando dalla palestra di Macerata e andando ad analizzare a ritroso tutti gli episodi di cronaca che ci hanno colpito personalmente oppure hanno segnato l’immaginario collettivo. L’unica alternativa alla disperazione – e unica risposta possibile – è sottolineare come ognuno di noi non possa essere il signore del proprio destino ma debba rendere conto ad Altro da sé.
E questo è sempre più inesorabilmente evidente quanto più sono umanamente drammatiche le circostanze in cui una vita terrena cessa.