Finalmente Pierluigi Bersani ha detto «qualcosa di sinistra», secondo il vecchio auspicio di Nanni Moretti. «Siamo nei guai, riduciamo i rimborsi, contrastiamo il populismo». Da almeno 18 anni ci si aspettava che dalle parti del Bottegone scendessero dal cavallo su cui hanno galoppato con alterne fortune. Scegliere di puntare tutto sull’antiberlusconismo senza costruire una reale alternativa di governo è stata una strategia debole. Demonizzare l’avversario, delegittimare chi – nel bene e nel male – rappresenta l’Italia, soffiare sul fuoco dell’antipolitica, spianare la strada alla magistratura senza preoccuparsi di individuare soluzioni politiche ha contribuito ad alimentare il clima di sfiducia complessiva nei confronti della politica.
Un altro duro colpo l’hanno dato gli stessi partiti quando hanno deciso di appoggiare il governo tecnico sdraiandosi ai suoi piedi. E ora che i partiti medesimi vogliono avere un po’ di voce in capitolo su riforme come quella del lavoro (dopo aver ingoiato senza fiatare le ripetute stangate fiscali di Monti), la loro immagine è quella di organismi corporativi che cercano disperatamente di difendere privilegi, null’altro.
«Siamo nei guai», dice Bersani. «Se c’è qualcuno che pensa di stare al riparo dell’antipolitica si sbaglia alla grande»: e qui il riferimento è a Di Pietro e alla Lega, i due movimenti populisti di destra e di sinistra, minacciati dalle Cinque Stelle di Grillo. «Se non la contrastiamo, l’antipolitica spazza via tutti». Il problema sono le esangui casse del Pd che non possono permettersi di rinunciare a un solo euro delle decine di milioni attesi. «I partiti non si devono mantenere con i soldi dei banchieri perché comanderebbero i più ricchi e i più forti e non saremmo più in democrazia».
A preoccupare Bersani sono soprattutto i sondaggi di questi giorni. Tutti gli istituti demoscopici concordano nel rilevare un calo del Pd e un sostanziale testa a testa con il Pdl tra il 24 e 27 per cento; calo anche della Lega, danneggiata dalle inchieste giudiziarie e non ancora beneficiata dalla politica di «pulizia», se non di epurazione, imposta da Roberto Maroni. Crescono appunto gli anti-politici come Grillo. Perché fra i partiti tradizionali non ce n’è uno che sia risparmiato dalle inchieste giudiziarie. Ma il partito più forte resta quello dell’astensione e dell’incertezza, della sfiducia, della rabbia.
Giovani, anziani, operai; elettori un tempo battaglieri ora sono scoraggiati e riempiono le redazioni dei giornali di lettere e mail cariche di amarezza e delusione, a destra come a sinistra. Piuttosto che votare il «nemico» non andranno alle urne. E così regaleranno un peso maggiore a quanti invece sono più motivati: i movimenti «nuovi», «contro», «anti».
Se questo è il contesto – cioè lo stesso Bersani teme che il Pd possa scomparire o essere ridotto a una presenza poco rilevante – si spiega anche l’accelerata che il governo tenta di imprimere alla propria azione. La forzatura del ministro Fornero sulla riforma del lavoro: o così o ce ne andiamo. La fretta di ottenere la delega fiscale. La riorganizzazione clandestina (meglio, l’azzeramento) della protezione civile. Mario Monti vuole fare in fretta. Con lo sgretolamento dei partiti di maggioranza, è a rischio la riproposizione della «grande coalizione» nella prossima legislatura. Ma potrebbe essere in pericolo la vita stessa di questo governo. E dunque, adesso o mai più.