È possibile, vero ignorare il proprio destino? In Cina nessuno ci crede, ma naturalmente per rispondere a questa domanda bisogna prima capire qual è il proprio destino, cosa non sempre semplice.
Vista da Pechino la domanda allora è: qual è il destino di Torino e del Piemonte? La domanda è quella che sta a monte rispetto alla polemica per la decisione della torinese Fiat di trasferire parte della produzione in Serbia. In Italia gente piange, protesta, si infuria, ma è solo conseguenza logica dell’altra decisione, celebrata quella in maniera indiscriminata, di acquisire parte della casa automobilistica americana Chrysler.
La Fiat ha scelto cioè il suo nuovo destino di essere industria che vive sul mercato mondiale e di non essere una fabbrica assistita dallo stato italiano, cosa che peraltro non può più essere anche per i limiti imposti dall’Unione Europea. La scelta è difficile, ma promette di trasformare la Fiat e da qui anche di cambiare un perno importante della struttura produttiva italiana.
Ciò però lascia Torino e il Piemonte, che per decenni avevano legato il proprio destino a quello della Fiat, da un canto. Infatti per praticamente tutto il ‘900 la torinese Fiat è stata la più importante industria italiana. All’inizio del secolo il sogno della motorizzazione mise presto Torino davanti a Milano e altre città che pure inseguivano lo stesso sogno.
Torino fu tutto insieme al fato delle richieste belliche della prima guerra mondiale, l’industrializzazione del primo dopoguerra e poi quella del secondo dopoguerra attraverso il regno del senatore mussoliniano Giovanni Agnelli, dell’interregno di Valletta e la successione di Gianni Agnelli che se non fu l’ultimo re d’Italia certo ne fu l’ultimo principe.
La Fiat mobilitò per la prima volta e per tutta la seconda metà del Novecento gli italiani, e Torino fu l’orgogliosa culla di questo sogno realizzabile di benessere e velocità quasi futuristica con la 500 e tutte le sue consorelle. Quell’auto fu la molla principale che portò l’Italia da potenza europea di secondo rango a grande stato economicamente almeno di primo rango.
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Quello era il destino di Torino: di fare l’Italia, con il trampolino dell’industria e dello sviluppo, così come nell’800 Torino aveva guidato l’unità politica. Ma la politica unitaria fu generosamente ceduta da Torino a Roma a favore anche di politici non più piemontesi: in modo simile è già avvenuto nei fatti il divorzio tra guida industriale del paese e Torino. Il divorzio è arrivato con la crisi della Fiat, e le decisioni attuali lo sanciscono. Il trasferimento in Serbia di parte della produzione è solo la campana che suona per i sordi i quali non si erano accorti di ciò che stava accadendo da anni.
L’Italia, in Europa, non ha più modo di proteggere un industria nazionale, né l’auto è più l’industria leader dello sviluppo globale (oggi è l’elettronica), né uno stato medio piccolo come l’Italia può garantire la sopravvivenza a una industria automobilistica che in tempi di globalizzazione vive o muore sul mercato mondiale.
La Fiat aveva davanti a sé la scelta se morire in Italia o rischiare di vivere nel mondo. Poteva quindi scoppiare e fallire tutta in Italia o dimagrire in Italia e cercare di espandersi nel mondo. Quale era la scelta razionale e quella che complessivamente salvava più posti di lavoro in Italia? La scelta attuale, certo.
Certo anche questa scelta lascia Torino orfana del suo destino nazionale: non è più guida politica né guida industriale, cosa può fare? Il problema è nazionale, perché senza Torino l’Italia è monca e priva del collante nazionale, in preda alle spinte centrifughe che si agitano ovunque.
Durante i secoli in cui l’Italia era divisa Torino e il suo Piemonte erano marginali, specie di angolo piedimontano sopra l’opulenta e orgogliosa Genova e Milano, luogo di passaggio tra l’Italia delle signorie e i centri commerciali d’oltralpe come Lione o Parigi. Forse proprio per questa sua marginalità politica la sua lingua originale, l’occitano, ponte tra l’italiano e il francese, è rimasto schiacciato ed è quasi sparito.
Torino ha ricavato il suo ruolo importante con la missione della nazione, oggi che la nazione traballa questo dovrebbe fare di nuovo Torino. Per questo destino Torino dovrebbe cercare dentro se stessa e, come quando era la guida d’Italia, guardare e pensare al mondo. Ce la può fare? Ce la farà?
Senza queste risposte è possibile che l’Italia si sfracelli e sicuramente Torino ridiventerà marginale, angolo bizzarro dietro le Alpi fuori dai grandi giri italiani, francesi o tedeschi.