Ci sono momenti in cui è difficile commentare. Ci sarebbe stato molto, moltissimo da dire sul weekend giapponese della F.1, dentro e fuori dalla pista. Ma l’incredibile e assurdo incidente occorso a Jules Bianchi ha cancellato tutto. Compresa la voglia di parlare degli addetti ai lavori. Ha vinto Hamilton, ha vinto di classe e forza. Ma in fondo che importa? In una Formula Uno in cui ragazzi di 17 anni salgono su bolidi da 350 Km all’ora come se fossero videogame sofisticati, l’idea del dramma, del rischio e forse della morte è un fantasma lontano, cui non si è avvezzi, di cui ci si dimentica volentieri. Oggi, per la prima volta da vent’anni a questa parte, il circus è tornato a ricordarsi suo maglrado che correre in macchina è un mestiere serio, difficile e terribilmente pericoloso. E forse, anche se non è politically correct dirlo, questo fa parte del suo fascino. Certo, quello che è successo a Suzuka è sinceramente qualcosa che va al di là del concepibile. Mentre scrivo Jules Bianchi sta lottando tra la vita e la morte in un ospedale giapponese dopo aver centrato con la sua vettura impazzita su una pozzanghera, un trattore che stava spostando la Sauber di Adrian Sutil incidentata poco prima. E’ fuori di dubbio che la sequenza di errori anche marchiani commessi dalla FIA e dalla direzione corsa impongano una inevitabile riflessione e possano anche essere interpretati come il segno di una Formula Uno allo sbando, guidata da personaggi ormai fuori dal tempo, che occupano le loro posizioni per inerzia o per immobilismo e che sembrano avere come obiettivo l’autolesionismo. Il motivo per cui una gru fosse in una posizione così delicata ai bordi di una pista inondata di acqua e con l’oscurità che scendeva inesorabile sbalordirebbe qualunque non addetto ai lavori cui raccontassero una cosa del genere. Ancora più sorprendente è stato l’utilizzo schizofrenico della safety car nel corso della gara, abusata nei nove inutili giri ad inizio corsa – tanto inutili che appena conclusi tutti i piloti si sono precipitati a montare le gomme intermedie – e non richiamata di fronte ad un pericolo piuttosto evidente un paio d’ore dopo. Per non parlare del fatto che invece di essere anticipato per il maltempo l’inizio della gara sia stato ulteriormente ritardato alle 15.30 locali andando inesorabilmente incontro al calar della sera per imperscrutabili “esigenze televisive”. E alla luce di quanto accaduto stridono ancora di più le regole sempre più cervellottiche e cavillose, le punizioni sproporzionate per reprimere fatti veniali, l’impossibilità per tutti di “provare” le proprie macchine per il tempo necessario a conoscerle bene in tutte le condizioni prima di una gara. Tutto questo è vero e, spero, sarà oggetto di una profonda riflessione anche in seno alla Federazione. Ma, per favore, non facciamo la caccia alle streghe e non inauguriamo il festival del “senno di poi”. Le corse sono e resteranno un affare affascinante e pericoloso. E’ il caso di non dimenticarsene mai: il fattore-rischio, per quanto limitabile al minimo, non può fisiologicamente essere eliminato. Ora ciò che conta è che un ragazzo di venticinque anni che correva inseguendo il suo sogno e che non più di qualche giorno fa avevo auspicato come sostituto di Raikkonen in Ferrari, sta lottando in una stanza di ospedale nella sua gara più difficile. Un ragazzo francese di origini belghe e di antenati italiani che appartiene ad una famiglia di grandi tradizioni automobilistiche che ha già pagato la sua passione per i motori con un prezzo molto alto. Mauro Bianchi, nonno di Jules e valente pilota di endurance, chiuse la sua carriera con un violentissimo incidente a Le Mans nel 1968, da cui non si riprese mai completamente. Suo fratello Lucien, prozio di Jules e protagonista per molti anni anche in F.1, quella 24 Ore la vinse, ma l’anno successivo morì durante le prove dell’edizione ’69 uscendo di pista sul circuito della Sarthe. Evidentemente in casa Bianchi la passione è più forte delle avversità della vita. Speriamo che anche nel caso di Jules vinca la tenacia e la passione.