Nella rappresentazione mediatica della campagna elettorale, il tentativo di Gabriele Albertini in Lombardia è considerato un sottoprodotto dell’Agenda Monti. Può rivelarsi una lettura scorretta, insidiosa: per l’ex sindaco di Milano come per il premier uscente. Può darsi che l’esito immediato e prospettico della “scelta civica” a livello nazionale dipenda più di quanto Monti stesso crede dal percorso risolutivo della crisi politico-economica “strutturale” maturata nella regione più importante del Paese. Può darsi che a Monti non serva alcun risultato numerico se a Milano Albertini – in tempo reale – non conferma che dietro la formula neo-centrista c’è almeno un minimo di blocco sociale: un’agenda magari con la “a” minuscola, ma radicata in pezzi importanti di Paese.
L’ex sindaco di Milano ridiscende nell’area elettorale prima di quando Monti faccia emergere la sua ”scelta civica”. Lo fa quando la Lombardia segnala con più chiarezza politica l’obsolescenza di una stagione, sotto la pressione della crisi economico-finanziaria. Sbaglia – o mente – chi continua a ridurre la fine anticipata della legislatura alla Regione all’esito “esemplare” dell’azione della magistratura. Come abbiamo già accennato in queste note, equivale a riprodurre molti decenni dopo il mito resistenziale: politicamente inutile nel 1945, storicamente inservibile dopo.
Roberto Formigoni è invece per certi versi vittima – certamente partecipe, ma forse non fra le più colpevoli – della “rivoluzione incompiuta” del ventennio berlusconiano. La sua Lombardia resta forse l’esito più avanzato dello sforzo del Paese di “liberalizzarsi”, di acquisire competitività mantenendo suoi equilibri economico-finanziari. Il modello sanitario “sussidiario” sviluppato in Lombardia – nei suoi contorni ampi – vale più di tutte le privatizzazioni e le liberalizzazioni “per decreto” gestite dalla tecnocrazia in partnership con il centrosinistra.
La sanità lombarda – nella quale non si sceglie rigidamente fra servizio pubblico e impresa privata, ma li si mette in concorrenza effettiva – ha raggiunto i suoi obiettivi assai più di quanto abbiano fatto le politiche di governo in altri terreni strategici. La Lombardia è un polo medico d’eccellenza a livello globale e le sue finanze pubbliche non sono in disordine. L’Azienda-Italia che ha svenduto Telecom (e non solo) non dispone di una rete di fibra ottica minimamente decente e continua a essere gravemente deficitaria nel suo bilancio.
La “rivoluzione liberale” fallita da Berlusconi è questo: è il non essere riuscito a portare nel Paese una cultura politico-economica che sfidava frontalmente le vecchie collusioni autarchiche fra Stato imprenditore, grande industria assistita, partiti avviluppati da sindacati e corporazioni. Ed è solo un’attenuante – certamente per il Cavaliere – che il centrodestra abbia sofferto progressivamente dell’involuzione della Lega: da avanguardia dell’imprenditoria diffusa nel Nord a tarda erede del sottogoverno democristiano, pericolosamente infiltrabile dall’economia criminale. La “crisi lombarda” (nella sua amministrazione regionale come nella sua socio-economia) rimane dunque un passaggio di chiarimento profondo: quali interessi? Quale modelli e valori? Quale rappresentanza?
Se la candidatura leghista dell’ex ministro Roberto Maroni odora di “ridotto” di un vecchio regime, quella di Umberto Ambrosoli – privo di esperienza politica e in fondo lontano dallo stesso centrosinistra – getta ombre sulla forza apparente del duello nazionale fra il “funzionario” Bersani e il “rottamatore” Renzi: non privo di contenuto e di realismo simbolico. La recente candidatura dell’ex vicedirettore de Il Corriere della Sera Massimo Mucchetti nel “listino personale” del segretario Pd sembra d’altronde confermare che il centrosinistra “in versione lombarda” non rinuncia a modi “old” di rapportarsi a un establishment finanziario a sua volta acciaccato e in cerca di nuove sponde.
È il mondo con cui lo stesso Berlusconi si è sempre confrontato in modo alla fine irresoluto e perdente: pagando spesso la dipendenza bancaria dei suoi business e accettando piccoli compromessi come l’accoglienza della figlia nel consiglio di Mediobanca. Nulla che – alla fine come all’inizio – rappresentasse una reale ascesa del “quarto capitalismo” alla leadership del Paese. Nulla che potesse favorire svolte liberali negli snodi della finanza e dell’impresa. E non è un caso che dopo Mediolanum e Fininvest, anche Unipol è stata alla fine ammessa al salotto di Piazzetta Cuccia.
Se Monti ri-parte da Milano (dopo un anno a palazzo Chigi) convinto che il suo progetto riformista possa trovare spazio elettorale nel semplice riaggiustamento dei vecchi equilibri fra il grande capitalismo bancario e il centrosinistra in testa nei sondaggi per la crisi definitiva del berlusconismo, può avere davanti a sé una strada più breve e ripida di quanto immagini. Ma anche il Pd può aver giocato d’azzardo nell’aver schierato sul decisivo scacchiere lombardo una figura come Ambrosoli: molto meno leggibile di quella di un Giuliano Pisapia e su un terreno più ampio, complesso, ricco di dinamismi “liberali” delusi da Berlusconi, ma indisponibili a ricedere il terreno al vecchio “sinistra-centro” politicista.
È in questo spazio – quanto stretto o largo non è ancora chiaro ad alcuno – che Gabriele Albertini rimane in campo, a sua volta alle prese con lo stesso problema di Monti: trovare voti veri in pezzi veri di un’Italia vera. Un buon numero di questi voti sono in Lombardia. E le ipotesi appaiono alla fine due soltanto: se Albertini è in campo con un progetto credibile è probabile che i suoi elettori votino anche Monti (è meglio se quest’ultimo adatterà la sua agenda a quella di Albertini). Se Albertini non sarà realmente in campo, è invece probabile che quei voti vadano persi anche per Monti. E che in Lombardia la “rivoluzione liberale” s’interrompa in modo strutturale.